Se si ripercorrono le recenti partecipazioni italiane alla Mostra di Venezia, non si può notare l’assenza dal lontano 1998 – quando ad aggiudicarsi il Leone d’Oro fu Gianni Amelio con il magnifico Così ridevano – di titoli all’altezza del palmares (sono passati, senza lasciare traccia, capolavori di presunzione come Per sempre di Placido, Quando la notte di Cristina Comencini o Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi), di opere per cui era assai papabile il conseguimento di un premio maggiore ma che la giuria di allora lasciò clamorosamente a bocca asciutta o ricompensò con un contentino (e qui la mente torna a Nuovomondo di Crialese, a Buongiorno, notte di Bellocchio e a Noi credevamo di Martone) o, ancor peggio, di pellicole di impatto effettivamente minore la cui inclusione fra i vincitori lasciò in bocca una sensazione ancora più amara di una sconfitta (Luce dei miei occhi di Piccioni, Il papà di Giovanna di Avati e, ahinoi, Terraferma del già citato Crialese).

Con l’avvio della carriera “solista” di Daniele Ciprì, figura di culto – insieme al collega Franco Maresco – del panorama televisivo e cinematografico degli ultimi due decenni grazie all’epocale CinicoTv e alla fortissima componente poetica post-pasoliniana dei suoi successivi lungometraggi, la partecipazione tricolore al Lido ritrova invece quella potenza, quell’originalità e quel coraggio che in tanti anni sembravano affievolirsi di fronte all’agguerrita concorrenza di cinematografie internazionali meno ingessate e senatoriali.

In primis, E’ stato il figlio è un’opera che non ha timore di assumersi i propri rischi, di fare delle scelte anche impopolari e bizzarre a cui non tutti potrebbero dare fiducia, di andare in assoluta controtendenza finendo per non assomigliare a nient’altro e per rappresentare un’evidentissima eresia nel panorama filmico del nostro Paese, che andrà idealmente a braccetto con quell’altro corpo estraneo che fu Reality di Matteo Garrone.

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Lo squallore imperante e gli accanimenti a tratti spietati sulle loro “cavie umane” da parte della coppia responsabile di Totò che visse due volte, uno dei film-chiave e degli scandali più necessari per inquadrare lo stato attuale della Settima Arte nel Belpaese, viene qui sostituito da un vitale e trascinante senso di grottesco rintracciabile soltanto in certe caricature del Germi più meridionalista, l’estetica a tratti post-atomica di quel lurido e sublime bianco e nero ritrova per la prima volta la forza del colore, visto che Ciprì, già celebratissimo per il suo intervento su Vincere di Bellocchio, può per la prima volta lavorare personalmente in un progetto suo anche da direttore della fotografia senza i condizionamenti del collega Maresco.

Insomma, E’ stato il figlio è un film differente sotto ogni profilo, inusitatamente caustico quando dipinge il contesto aberrante di una civiltà più prossima alle bestie che all’Uomo, attraverso la vicenda della famiglia Ciraulo, improvvisamente colpita da un lutto dopo l’omicidio accidentale della piccola Serenella: la tragedia, tuttavia, è tutt’altro che la catarsi del racconto, ma il punto d’inizio di una sarcastica discesa agli inferi di un intero corpo familiare, visto che per il capofamiglia Nicola è previsto un assai cospicuo risarcimento per vittime di mafia, che subito – ma in maniera inconscia, e non gratuitamente intenzionale – mette alla porta la disperazione di aver perso una figlia e, dopo molte tribolazioni, si gode l’occasione unica di un’insperata elevazione sociale.

Siamo di fronte, citando le esatte parole del sensazionale e già iconico protagonista Toni Servillo, ad un esempio perfetto di “realismo antinaturalistico”, dove tutto, e soprattutto l’elemento umano nella sua forma di imitazione del vero, è subordinato al veicolare il messaggio, proprio come nel Pasolini e nei Citti più puri: l’elemento caricaturale dei personaggi, specie dei comprimari, è il riflesso distorto di una bruttura antropologica generalizzata e confusa (si pensi all’avvocato iperforforoso e strabico o all’usuraio melomane con i suoi “cachinni”), la volgarità dei loro sogni, che prendono forma perfetta nella fantasia di Nicola che si prefigura già a bordo della tanto agognata – e fatale – Mercedes su uno sfondo di cartoline da Mondello, cannoli siciliani e simboli della Trinacria, è messa in scena ponendosi al livello dei personaggi, senza l’attitudine snobistica di guardarli dall’alto in basso.

E in un’opera dove davvero ci si concede di tutto, persino un finale di straziante intensità che sfiora la tragedia elisabettiana e che quasi spinge a rivedere da capo a piedi la nostra prospettiva – come già accaduto per l’ultimo atto de Il ritorno di Cagliostro – è bello vedere un lavoro attoriale perfettamente bilanciato e di grande sensibilità interpretativa, dove, nonostante un protagonista irresistibile ma tutt’altro che soverchiante nell’economia del cast, ogni personaggio, prima o poi, trova il compimento del proprio ruolo, dalla mesta Giselda Volodi alla insospettabile Aurora Quattrocchi, che, quasi in ombra per l’intera pellicola, deflagra come un fuoco d’artificio e domina l’epilogo, senza dimenticare il volto impenetrabile di Alfredo Castro, presenza fissa nei film del cileno Pablo Larrain, che da misterioso e indecifrabile narratore non ha bisogno neanche di parlare per contribuire al dolcissimo terremoto del colpo di scena conclusivo.

In sintesi, la nuova fatica di Daniele Ciprì è il miglior biglietto di presentazione con cui il cinema italiano stanco di una rassicurante mediocrità potesse presentarsi non solo ad una manifestazione artistica ma, incrociando le dita sul suo eventuale destino distributivo fuori dai confini nazionali, ad uno stadio nuovo e vivido della produzione europea.

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