Liberatevi di qualunque preconcetto prima di entrare in sala ad affrontare un film come questo, veloce ed efficace come un pugno in faccia, crudo e delirante come solo il cinema di Friedkin riesce ad essere. Con Killer Joe il regista simbolo della New Hollywood che ha al suo attivo pellicole come Il braccio violento della legge (Oscar 1972 per la Miglior Regia), L’esorcista e Vivere e morire a Los Angeles torna dietro la macchina da presa a cinque anni di distanza da Bug (2006), prendendo spunto da una pièce teatrale del 1998 del Premio Pulitzer, Tracy Letts. Presentato In Concorso a Venezia 68, Killer Joe racconta la storia di una famiglia eccessiva e disfunzionale in cui padre (Thomas Haden Church), figlio pusher (Emile Hirsch), matrigna (Gina Gershon) e sorella (Juno Temple) architettano un piano per uccidere la madre-prima moglie e vivere della sua assicurazione sulla vita. Per farlo, assumono un poliziotto corrotto che arrotonda lo stipendio facendo l’assassino mercenario (Matthew McConaughey).

Le vicende della famiglia Smith, di cui apprendiamo i trascorsi attraverso i dialoghi tra una manciata di personaggi brutti (nell’animo) sporchi e cattivi, si svolgono in un non-luogo texano non meglio identificato. Gli Smith vivono in una casa prefabbricata, una baracca fatiscente in mezzo al nulla, in un cortile perennemente fangoso dove il tempo che passa è scandito dai latrati perenni di un cane in catene. In una location tanto assurda quanto i personaggi che la abitano (perfettamente immortalati nella fotografia di Caleb Deschanel), questi ultimi si stagliano netti, immensamente più grandi dell’angusto spazio che li contiene. Friedkin, poi, risulta abilissimo ancora una volta a denunciare la natura sociopolitica e morale della violenza attraverso il suo sguardo asciutto ed essenziale, dando vita a un’opera che si rifà ai meccanismi tipici del noir americano classico (pensate ai primi film di Hitchcock o a La fiamma del peccato di Wilder) strizzando al contempo l’occhio al nuovo cinema di genere, dai fratelli Coen a Quentin Tarantino.

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La riuscita di un film come Killer Joe va attribuita, però, soprattutto al fattore coraggio: quello di William Friedkin, che a settantasette anni suonati ha confezionato un film lucido, cattivo e spietato che probabilmente neanche se l’avesse realizzato a vent’anni gli sarebbe riuscito così bene, e quello di Matthew McConaughey che, evidentemente stufo di fare il belloccio di tante commedie romantiche, ha scelto di lanciarsi a capofitto nel torbido del personaggio migliore che gli sia mai stato proposto.

Splendidi anche i membri della famiglia Smith, un branco di stupidi e depravati, sia fisicamente che moralmente, che per tutto il film non fanno che compiere scelte sbagliate e assolutamente scorrette. Mantenendo lo stampo teatrale della piéce originaria, Tracy Letts, autore della sceneggiatura, affronta in modo assolutamente insolito il tema della famiglia visto come vaso di Pandora da cui prendono vita tutti i mali del mondo: i dialoghi sono assurdi e privi anche solo di un barlume di complessità e le situazioni parossistiche a cui lo spettatore assiste risultano talmente folli da diventare credibili. Con il passare dei minuti, lo sbigottimento iniziale nel vedere una famiglia riunita attorno a un tavolo mentre pianifica un omicidio, senza sentire la necessità di giustificarsi in alcun modo per quello che sta per mettere a segno, lascia spazio al godimento visivo e alle sensazioni di pancia, mentre ci si dirige verso un epilogo grottesco, senza mai una battuta d’arresto o un cedimento nella narrazione.

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