Sia chiaro sin dall’inizio: Monsieur Lazhar è arrivato troppo tardi, e non soltanto per via della distribuzione italiana.
Dopo La classe di Laurent Cantet, qualsiasi film sulla didattica e sull’interazione insegnante-alunno è finito per sembrare obsoleto, artefatto e derivativo.
Si rivela difficile, oggi, dire qualcosa di nuovo restando “fra le mura” (come recita il titolo originale) di un’aula scolastica, grazie precipuamente alla pressoché totale adesione fra materia e forma, fra oggetto e messinscena, fra esistere e raccontare di quel sorprendente esperimento così vicino al limpido documentarismo di Nicolas Philibert (si ricordi, nello specifico, il suo Essere e avere), ma al medesimo tempo attento a mantenere l’integrità semantica del cinema di finzione.

Scrollatasi di dosso la presenza ingombrante del suo altrettanto francofono predecessore, venne subito il turno per Monsieur Lazhar di confrontarsi con una seconda, impareggiabile pellicola – questa volta concomitante – abile ad imporsi unanimemente all’attenzione della critica e del pubblico, nonché di offuscare, specialmente per gli spettatori d’oltreoceano, il resto del panorama filmico mondiale di quella nutritissima stagione: non ci fu quasi spazio per la soave e rigenerante carezza di Miracolo a Le Havre, per l’ipnotica e cechoviana meditazione esistenziale di C’era una volta in Anatolia o per l’allucinato prodigio post-umano de Il cavallo di Torino, tutti rappresentanti dei rispettivi Paesi agli Oscar 2012 e, fuor d’ogni dubbio, opere fra le più riuscite e memorabili di inizio decennio. A uscire trionfante dalla cinquina finale, dopo essersi aggiudicato, fra gli altri, l’Orso d’Oro, il Golden Globe, lo Spirit Award e il César, fu il vincitore annunciato Una separazione, ottimo ma soprattutto tempestivo ambasciatore dell’ispiratissima cinematografia iraniana, riconosciuta nel circuito maggiore ed extra-festivaliero con imperdonabile ritardo, nonostante l’importanza capitale rivestita da autori come Amir Naderi, Abbas Kiarostami, Bahman Ghobadi e Jafar Panahi.

Ai quattro restanti concorrenti rimase innanzitutto la gloria di aver combattuto contro un avversario virtualmente imbattibile e di essere giunti dove veterani come Iosseliani, Wenders e Shindo (insieme ai già citati Kaurismaki, Ceylan e Tarr) erano stati, decisamente a torto, estromessi.

Come anticipato, Monsieur Lazhar esce nei cinema del nostro Paese a dieci mesi di distanza dall’uscita del suo rivale mediorientale e a complesso di inferiorità superato una volta per tutte, ma è precisamente dal raffronto fra le due pellicole che si dovrebbe partire per inquadrare nel modo migliore il candidato canadese agli scorsi Academy Awards.
Esattamente come il potente intreccio a orologeria di Asghar Farhadi e la sua fitta rete di omissioni, dissidi ed equivoci, l’opera che ha fatto conoscere al mondo il québécois Philippe Falardeau pone al centro di tutto temi fondamentali come la responsabilità ed il senso di colpa, oltre ad indagare nelle ingerenze di un sistema legale rigido a scapito dei deboli (pur facendo i doverosi distinguo fra Montreal e Teheran): se in Una separazione, però, ciascuno dei protagonisti fa ciò che può per scaricare il peso dei propri errori e delle proprie idiosincrasie sull’altro, in Monsieur Lazhar dominano l’ipocrisia del silenzio e l’intralcio dell’incomunicabilità, un limbo sterile dove si preferisce sottacere e darsi pace piuttosto che misurarsi con la realtà e con il proprio bisogno di esprimersi.

Laddove la violenza, per Farhadi, esplode sotto forma di un privatissimo e onnicomprensivo conflitto fra sessi, ceti e ruoli dal quale nessuno, alla fine, esce pulito, per Falardeau è sufficiente un singolo, cruento ed emblematico evento, il suicidio della maestra Martine, per seppellire sotto una coltre di conformismo e di vergogna il microcosmo di chi è rimasto: trovato da due suoi allievi ancora penzolante dal soffitto, il corpo di Martine innesca uno stato d’emergenza nel quale – verrebbe da pensare al MOIGE nostrano – la parola “morte” è bandita, la cognizione del dolore è scoraggiata e il contatto umano, sia esso fisico o spirituale, passato sotto censura.

Per correre ai ripari, genitori e docenti arrivano a concepire un regime di protezione coatta dove vigono l’apatia e la profilassi contro ogni possibile turbamento, cercando di tutelare i bambini da qualsiasi scontro con la verità, ma a stravolgere i piani e ad aprire in maniera tanto dolce quanto risoluta i loro occhi sarà Bachir Lazhar, rifugiato algerino con più di un segreto e unico adulto disposto a porsi al loro livello senza per questo negare quel processo di maturazione e di crescita che la tragedia ha pesantemente condizionato.

Non ci si aspettino, però, i plateali addottrinamenti del professor Keating (L’attimo fuggente) o le contraddizioni lancinanti del giovane Dan Dunne (Half Nelson, purtroppo da noi ancora semi-sconosciuto): quello di Monsieur Lazhar non è né un criterio strettamente educativo (proporre La pelle di zigrino di Balzac a una scolaresca di dodicenni dimostra nettamente la sua inesperienza) né un approccio socratico dove l’apprendimento si traduce in facoltà di reazione (la classe non progredisce particolarmente neanche ad anno scolastico avanzato), ma un percorso paritario fatto principalmente di empatia e di compassione – nell’accezione più rousseauiano del termine – ma evitando di instaurare un rapporto necessariamente amicale con i ragazzi e, al contrario, con un metodo che più tradizionale non si potrebbe.

Ed è con questo strano equilibrio che il film si palesa per ciò che è, per una tenera, a tratti disarmante, parabola sull’elaborazione del lutto e della perdita, nella quale, pur rimanendo ognuno nella propria dimensione sociale e anagrafica, le cicatrici mai pienamente rimarginate di un maturo cinquantenne venuto da lontano e le precoci ferite di chi si è da poco affacciato alla vita possono vicendevolmente lenirsi, se non addirittura curarsi.

Proprio nella prospettiva del suo amabile e trascinante protagonista sta la fresca intuizione del film, mutuata con intelligenza dalla sua origine di monologo teatrale – Bashir Lazhar di Évelyne de la Chenelière – e adattata perfettamente sul volto sereno, dolente e per certi versi defilippiano di Mohamed Fellag (l’aggettivo suona tutt’altro che a sproposito, se si considera che apice del suo curriculum sul palcoscenico fu l’Oreste Campese de L’arte della commedia): personaggio contemporaneamente forte e fragilissimo, Lazhar è l’alfiere ideale di una generazione a metà fra conservatorismo e anticonformismo, capace tanto di ricorrere a un benefico ceffone quanto – nel commovente epilogo – al conforto di un abbraccio, gesti speculari eppure dall’identica finalità, ed entrambi proibiti dal protocollo.

Pur non rinunciando al fattore coinvolgimento, Falardeau decide di giocare di sottrazione, con pochi e sobri interventi pianistici di Martin Léon, con una macchina a mano morbida e confidenziale, con una fotografia (di Ronald Plante) tutta virata sul bianco e sui colori freddi a rappresentare non solo il lungo, mesto e infecondo inverno, ma anche l’asettica purezza di un’infanzia mantenuta coercitivamente immacolata.

Insomma, Monsieur Lazhar non è – né vuole essere – un punto di vista inedito sull’universo scuola, ma si presenta innocentemente come una candida e gentile favola sulla sopravvivenza – proprio come quella letta in aula da Lazhar nel suo ultimo giorno di lavoro – dove è soltanto con il tempo, con la pazienza e con la cooperazione che si può imparare, come gli studenti di Lazhar, a capire la differenza fra un crisantemo (in Occidente, fiore solitamente associato alla morte e al cordoglio) e una crisalide.

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