Premessa irrinunciabile: La nave dolce di Daniele Vicari è un documentario splendido, emozionante, un flusso della memoria giocato per mise en abyme non attraverso il racconto, la documentazione appunto in tempo reale del regista, ma con la grande quantità di materiale realizzato dai mass media ai tempi dello sbarco della Vlora a Bari, l’8 agosto del 1991, un bastimento arrivato con un carico straordinario di 20.000 albanesi.

Un evento simbolico. L’immagine di quella nave era un’icòna potentissima che segnò definitivamente un prima ed un dopo nell’immaginario collettivo nazionale ed europeo nel rapporto con l’altro. Nel confronto con nazioni, popoli, uomini e donne che – come nella luce delle stelle che le disegna com’era anni, decenni, millenni prima – riportavano, facevano riemergere l’immagine di povertà superate e presto rimosse.

Un Paese come l’Italia che, fino a quindici anni prima, aveva vissuto il trauma lacerante dell’emigrazione – rappresentata da un’altra icòna, quella di Ellis Iland – aveva iniziato a vivere da poco, in modo graduale, il flusso inverso che però, con la Vlora si reificava in modo eclatante – oceanico pur in un Mar Mediterraneo – con reazioni, a tratti razziste per la sensazione di invasione barbarica, a tratti empatiche per i tanti slanci di solidarietà. Un intero popolo, una nave carica di tanti corpi e volti che diveniva vascello antropomorfico, come un quadro dipinto da un Arcimboldi “umanistico.

Gli albanesi “brutti, sporchi e cattivi” portavano la memoria scritta in faccia di quelli che erano stati gli italiani del Dopoguerra, con la fame e la povertà scritta negli occhi, migranti anch’essi. Un ricordo molto sgradevole per una nazione che – a ridosso di Tangentopoli e della grande crisi economico-finanziaria del ’92 – viveva il suo momento apparente di massimo benessere, gli sgoccioli dei colorati e pacchiani anni ’80. Un Ordine internazionale – da poco era caduto il muro di Berlino ed un mese dopo un colpo di Stato avrebbe chiuso la felice parentesi gorbacioviana – era cambiato e la Vlora era una delle prime eclatanti conseguenze della Storia che andava avanti, senza una direzione sensata ed intellegibile come sempre.

E, come le recentissime rivoluzioni mediorientali fiorite sulla novità tecnologica dei social network e degli smartphone, anche l’assalto albanese alle coste pugliesi era mosso da un catalizzatore mediatico come il dispositivo di senso della televisione italiana d’allora, scintillante e spensierata come i craxiani “nani e ballerine”. Programmi visti anche in Albania con disastrosi effetti illusori, rappresentando agli occhi degli arretrati balcanici l’Italia quale Paese dei Balocchi, come cantò l’anno dopo Edoardo Bennato in un album omonimo ed in un video con proprio le immagini dello sbarco a Bari.

Due icone a segnare “navalmente” vent’anni di involuzione del nostro Paese: la Vlora affollata di un popolo che vedeva nelle nostre coste una speranza di miglioramento, di ricchezza, di democrazia, di divertimento. In modo eccessivo, irrazionale. A chiusura di questo ventennio di immobilismo, di scelte non fatte, di chiacchiericcio mediatico, si pone l’altro “santino navale”, quello della Concordia incagliata, incagliata come il Paese in una stasi coatta per colpa di uomini mediocri, scollati dalla realtà, protesi in un’edonismo d’accatto fino al punto da autodistruggere la nazione, una superficialità che inevitabilmente trascina sul fondo, nata nel decennio che ingannò con la sua falsa ricchezza prima gli albanesi e, quel che è peggio, anche gli italiani.

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Mi sto soffermando poco sul film di Vicari perché è perfetto e già una cartella e mezzo di scrittura senza arrivare ai 90 minuti di immagini, è il miglior riconoscimento al regista della qualità del suo lavoro. Un lavoro che alterna in un vero film di fiction documentaria, mi si permetta questo ossimoro, riprese della tv italiana ed albanese alle testimonianze di chi era su quella nave, come il noto ballerino Keidi Klum che poi ha trovato, uno su ventimila, veramente quel Paese dei Balocchi, grazie però al talento ed al sacrificio. Vicari affronta un episodio che segnò brevemente la nostra memoria per essere poi superato dalla velocità televisiva di altri eventi storici.

Ma chiunque abbia almeno trent’anni, rivedendo quelle immagini nella dolce narrazione vicariana, si rende conto che quella nave rivive in molteplici forme nella vita presente di ognuno. Intanto, lo scorso anno, la mia ricerca presso le Teche Rai di filmati per la rassegna Cinema di Migrazione, che mi ha visto subito imbattere nella Vlora e nella battuta di Piero Chiambretti di un programma di quei giorni che affermava che se gli albanesi avessero visto Rai Tre e non Rai Uno, sarebbero rimasti a casa. Ma questa è un’esperienza da “addetto ai lavori”. Il giorno dopo aver visto La nave dolce all’anteprima romana però, mi sono trovato bloccato sulla Tiberina, vicino Roma, per una protesta di un gruppo di africani di un vicino Centro di Accoglienza per le assurdità legislative e le lungaggini burocratiche che li danneggiano. Ho seguito le loro invettive, ho letto i loro cartelli, li ho visti sdraiati per terra a bloccare Tir ed a creare disagi agli automobilisti.

E poi l’arrivo di interpreti, mediatori culturali, psicologi e naturalmente polizia, carabinieri, prefetti ed alla fine di una camionetta blindata con forza dell’ordine in assetto da battaglia urbana che ha impiegato minuti di scenografica ed inquietante vestizione con guanti di pelle ed altri accessori tra cui luccicanti manganelli. Penso che soprattutto questi ultimi abbiano convinto i pochi africani a desistere dal proseguire l’occupazione stradale. Il piccolo episodio, durato circa un’ora, sembrava rappresentare la sintesi in sedicesimo dei giorni della Vlora. L’occupazione del mare e della banchina, il controllo brutale delle forze dell’ordine, la reclusione dei migranti in uno stadio dove si sono scatenati gli istinti più violenti, primitivi, criminali ed infine lo sgombero ed il rimpatrio. Le dinamiche, raccontate da Vicari, si sono incancrenite in un ripetersi di episodi piccoli e grandi fino ad oggi, fino a lambire la mia vita reale appena un giorno dopo la visione del film.

Dalla Vlora al plastico del barcone affondato nello studio di Vespa fino all’istituzionalizzazione immaginifica di Lampedusa come nuova Ellis Iland della disperazione. Lo shock diventa abitudine vissuta con irritazione ed è preziosa l’opera di chi, come un regista sensibile ed intelligente, cerchi di svegliarci dal sonno della ragione che viviamo, cerchi il bando della matassa del presente in cui siamo immersi. Immersi appunto, in deficit da ossigeno, quando forse dovremmo prendere lo Stivale come una grande Vlora e portarla verso un approdo di speranza, con l’innocenza e l’entusiasmo di quel popolo giovane che lasciò tutto per cambiare vita. Qualcuno la cambiò, molti vennero solo a fare una spericolata gita per vedere com’era veramente l’Italia. Molti altri, purtroppo per noi, tornarono delusi.

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    L’intervallo | I migliori | Binario Loco

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