Mai sottovalutare la potenza demistificante e distorcente della distribuzione nostrana.
Gli spettatori meno occasionali, non abbindolati dal taglio effettistico e sensazionalistico del trailer, nel quale abbondano orrorifici riverberi e inconsistenti richiami al filone esorcistico, e dalla palese mendacità delle frasi di lancio, capaci di tirare in ballo con disinvolturà Hitchcock e i brividi del thriller, non avranno faticato a riconoscere in Cristian Mungiu l’araldo più talentuoso della new wave romena e il responsabile del riconoscimento internazionale di una cinematografia a lungo tempo considerata collaterale, per merito soprattutto della sua sensazionale opera seconda 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni e del suo contributo, anche in veste di produttore, al fortunato film a episodi Racconti dell’età dell’oro.
L’atteso ritorno al lungometraggio del regista di Iaşi, Oltre le colline, nonostante l’insistito richiamo alla veridicità dei fatti narrati per accalappiare platee alla ricerca dello spavento facile, è un vasto e straziante excursus sulla forza annichilente dell’indifferenza, una devastante, privata e laicissima via crucis dove l’amore e il dolore coincidono, il ritratto beffardo di un mondo che ha confuso la forma con la sostanza, il credo con la superstizione, il contatto con la procedura e nel quale è perfettamente legittimo che un vescovo si rifiuti di consacrare un luogo di culto finché non sono stati completati affreschi e pitture.
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Non c’è più nulla di conciliante, di salvifico, di rassicurante nella storia di Alina e Voichita, nel loro dramma di ex compagne di orfanotrofio destinate a due esperienze di vita speculari ma altrettanto alienanti, la prima ad una infruttuosa – e probabilmente dolorosa – esperienza lavorativa di poco conto in Germania, la seconda alla santa vocazione dello spirito, coltivata all’interno di uno sperduto monastero dove l’identità gerarchica coincide con quella genitoriale e dove il priore e la madre superiora – soltanto al riparo da orecchi indiscreti – rispondono al nome di Mamma e Papà.
Non troppo diversamente dall’incantamento collettivo e dall’equilibrio darwiniano di The Master, dove la cieca obbedienza porta lo sbandato Freddie Quell a rielaborare quanto lo circonda sotto la lente deformante degli insegnamenti di Lancaster Dodd, nonché a piegarsi alle disposizioni nullificanti del Culto, le due giovani, isolate dalla burocrazia e dai frangenti nell’inospitale microcosmo dell’eremo, finiscono per subire l’onnipresenza e il rigore – è proprio il caso di dirlo – ortodosso del diritto canonico, in particolare Voichita, riunitasi con Alina principalmente per trascinare quest’ultima via dalla clausura e per riconquistare quel legame intimo e simbiotico vissuto durante l’infanzia, mettendo disperatamente i propri sentimenti in competizione con l’avversario impareggiabile per eccellenza, ossia la fede in Dio, al punto tale da vivere e inscenare un umanissimo e inconsolabile calvario profano, nel quale la carenza d’amore e gli irrefrenabili, caratteriali sintomi di essa vengono ottusamente fraintesi per possessione diabolica.
Oltre le colline non è quindi una mera constatazione geografica, ma, prendendo in prestito l’affine – ma assai meno drammatica – pellicola di Giuseppe Piccioni, la fotografia sconfortante di una realtà fuori dal mondo, rispondente a regole tutte sue a scapito in special modo del più debole, che non può vedersi assistito e sorretto se prima non accetta una totale, umiliante subordinazione al potere, politico o ecclesiastico che sia (va ricordato che la crescita personale e artistica di Cristian Mungiu hanno coinciso con il crollo del Patto di Varsavia e con la rivoluzione decabrista).
Come nelle repressioni più bieche, è l’ipocrisia del sistema a fornire gli spunti più beffardi: Mungiu sceglie di ambientare la vicenda a ridosso delle celebrazioni pasquali, l’apice della liturgia per un cristiano – il fatto di cronaca si è in realtà svolto in estate – e ciò costringe il priore e le consorelle a nascondere alla comunità, presente in massa per assistere alle funzioni, le mortificazioni inflitte ad una sempre più incontrollabile Voichita, e risulta a tratti comica la determinazione con cui le giovani monache consultano l’elenco dei 464 peccati riconosciuti dalla Chiesa Ortodossa, facendo compilare alla ragazza una lista che includa quelli di cui si ritiene colpevole come se si trattasse di una schedina calcistica o di un test attitudinale.
Per acuire l’intensità di questo scontro fra il singolo e la società, fra l’insurrezione dell’anima e la barricata della convenzione, il regista, in forma forse ancora più estremizzata e micidiale rispetto alla sua precedente fatica, riduce al minimo indispensabile gli interventi di montaggio, adottando uno stile al contempo inscindibile dall’unità cronospaziale ma contemporaneamente attentissima alla composizione delle immagini (ormai celebri e riconoscibilissimi le sue riprese alle spalle dei personaggi), decidendo di rinunciare al ritmo per privilegiare l’energia della messinscena (non è un caso che tre dei quattro protagonisti vengano da una carriera quasi esclusivamente teatrale) e per non interrompere quel flusso emozionale – tanto per chi interpreta, quanto per chi guarda – che la lunghezza di un pianosequenza è in grado di garantire.
Ed è curioso che siano disseminati per tutto l’arco della pellicola tanti riferimenti impliciti all’idea di regia cinematografica: “la continuità è importante”, afferma il priore a proposito della dedizione religiosa, ma, curiosamente, anche Mungiu a proposito delle sue dilatatissime riprese; “non devi entrare nei dettagli”, afferma Alina a proposito del sacramento della confessione, a cui cerca di spingere Voichita, ma, ancora una volta, anche l’autore in merito alla sua scelta di rifiutare qualsiasi didascalica esposizione, affidandosi alla realtà cruda, sfiancante e talvolta ellittica dei dialoghi.
Proprio nei dialoghi – sapientemente premiati a Cannes insieme alle due intensissime attrici – e, nello specifico, quelli più sfuggenti sembra nascondersi il senso ultimo di Oltre le colline: “chissà quanti peccati avrà commesso”, ripetono insistentemente le ragazze osservando il comportamento sempre più ostile della loro ospite, delegando il tutto ad un passato di cui lavarsi le mani e giustificando il proprio inconsapevolmente inumano operato; “si è buttata dalla finestra perché non le era venuto il ciclo”, afferma qualcuno in ospedale, confermando il carattere generalizzato e tutt’altro che individuale di quel folle clima di distacco e di incoscienza civile.
Alla fine, resta il senso di aver assistito non al solito, facile esercizio da mangiapreti (rischio in cui, per certi versi, cadeva il Magdalene di Peter Mullan, per fare un paragone) o al compiaciuto e a tratti pornografico percorso di sofferenza tipico di gran parte del cinema di Lars von Trier, ma ad un’opera attenta nel prendere la mira verso i bersagli meno prevedibili e a dare forma agli incubi del quotidiano, ad un’opera impegnativa ed estremamente coinvolgente pur nel suo carattere raggelato e respingente, insomma, ad un film che ci porta (e non ci costringe) a confrontarci con le nostre convinzioni più radicate e con ciò che cerchiamo di negare.
Oltre le colline è, in definitiva, un invito urgente a non dimenticarci mai di quel reticolo complesso, inestricabile e bisognoso che è la condizione umana.
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