In concomitanza con l’elezione dell’incantevole città di Guimarães, culla tradizionalmente acclarata del Portogallo, al ruolo di Capitale Europea della Cultura per il corrente anno, la neonata divisione Maxxi del Festival del Cinema di Roma, che ha raccolto contemporaneamente l’eredità della capitolina Extra e l’esempio della veneziana Orizzonti, apre le danze il 9 novembre – e rigorosamente a ritmo di fado – proprio con una fitta ed enciclopedia raffica di pellicole di produzione lusitana, tre raggruppamenti di cortometraggi interamente girati nel luogo di nascita di Dom Afonso I, fondatore e primo sovrano della patria di capisaldi immancabili dell’arte novecentesca come Fernando Pessoa, Amália Rodrigues e Manoel de Oliveira.

Proprio quest’ultimo, voce fra le più rappresentative e prolifiche del cinema del Vecchio Continente di tutti i tempi nonché instancabile e inesplicabile prodigio della natura arrivato all’alba dei 104 anni con la media di un progetto all’anno nell’arco dell’ultimo quarto di secolo (l’ultimo, Gebo e l’ombra, è stato presentato fuori concorso due mesi fa in Laguna), firma il breve O conquistador, conquistado, ironica instantanea su un’invasione di turisti vista dall’angolazione della piazza principale del borgo (che, guarda caso, risponde al nome di Praça da Oliveira) e della celebre statua di Dom Afonso I nel Palazzo dei Duchi di Braganza, la prima antologia prevista in programma, Centro Historico, dove sarà in buona compagnia.

Lo affiancano, infatti, il conterraneo Pedro Costa, di cui si ricorda soprattutto il sensazionale tour de force docufiction di No quarto da Vanda e che qui, con Lamento da vida jovem, riprende il protagonista del suo Juventude em marcha e, tenendolo chiuso in un ascensore, lo getta in una rievocazione pubblica e privata dal sapore proustiano; il “vicino di casa” Victor Erice, personalità di culto della Spagna post-franchista e autore di appena tre lungometraggi (fra cui lo splendido, protomalickiano esordio Lo spirito dell’alveare) dal 1973 ad oggi, presente con l’inchiesta di Vidros partidos, sulla mesta chiusura, dopo un secolo e mezzo di attività, di una delle maggiori industrie tessili d’Europa; il lisboeta d’adozione Aki Kaurismaki, massimo cineasta scandinavo – dopo Bergman – di sempre, recentemente trasferitosi nella capitale portoghese per prepararsi all’imminente ritiro dalle scene, che recupera la sua tenera, laconica e calorosa prospettiva sottoproletaria con il ritratto da bancone e boccali di O tasquiero (ovverosia, Il barista).

Meno altisonanti, ma tutt’altro da sottovalutare, sono i tre registi coinvolti in Historias de Guimarães: si comincia con João Nicolau (conosciuto a Venezia, nella sezione Orizzonti, con lo spassoso, rivettiano e cervellotico divertissement di A espada e a rosa, e responsabile del montaggio del nostrano L’estate di Giacomo) e con il suo O dom das lagrimas, che fra cacciatori e principesse, ripropone l’atmosfera giocosa del film che lo ha rivelato; si prosegue con João Botelho (anch’egli a Venezia, però in competizione, con il dimenticato O fatalista), alla regia di O bravo som dos tambores, che mescola l’epicureismo del filosofo Umar Khayyām con la celebrazione delle Feste Nicoline; si chiude con Vamos tocar todos juntos para ouvirmos melhor, il para-documentaristico segmento musicale del videoartista Tiago Pereira.

La terza collezione, Guimarães Transversal, include infine Birds di Gabriel Abrantes (al Lido, nella categoria Orizzonti e in coppia con Daniel Schmidt, con il ghignante mediometraggio Palacios da Pena), A mesa ferida di Marco Barbosa e Der Schlingel di Paulo Abreu, e rappresenterà il culmine sperimentale e anticonvenzionale di un ritratto poliedrico e multisfaccettato a metà fra l’urbano e l’agreste, il malinconico e l’avanguardistico, l’antico e il moderno, in altre parole un esemplare servizio reso ad un gioiello nascosto dell’Europa occidentale e al magnifico Paese che la circonda.

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