A Mostra del Cinema di Venezia appena conclusa, ci si è voluti soffermare, tanto su carta stampata quanto sul web e con un’acrimonia ai limiti dell’autolesionismo, sulla mancata assegnazione di premi di rilievo ai membri della delegazione italiana presenti al Lido, rimarcando preventivamente – ma, visti i precedenti, non con tutti i torti – il patologico provincialismo delle pellicole nostrane, messe in comparazione con il respiro universale del resto dei titoli in gara.

Sorvolando sul carattere prettamente ideologico o superficialmente esterofilo delle accuse, che sono arrivate a minare le fragilissime fondamenta di un’opera memorabile e riuscita come Bella addormentata, il risultato di questo atteggiamento ha messo disgraziatamente in ombra l’insperata forza di una selezione assai più agguerrita e coesa del solito, sezioni collaterali comprese, nelle quali la sacrosanta abolizione del ghetto paratelevisivo altrimenti conosciuto come Controcampo Italiano ha fatto riversare un più contenuto e selettivo novero di partecipanti.

Se escludiamo la trascurabile chiusura affidata al moccismo travestito da anticonformismo di Francesca Comencini e le buone intenzioni, tradite principalmente da un tutt’altro che eccelso materiale di partenza, di Acciaio, di rado si è avuto un livello così clamorosamente alto delle partecipazioni tricolore, da un Concorso in cui, con una giuria meno disorganica e a tratti abborracciata, gli ottimi film di Bellocchio e di Ciprì non avrebbero faticato ad imporsi nel Palmares, al notevole documentario di Vincenzo Marra presentato alle Giornate degli Autori, senza dimenticare il bell’esordio da regista di Luigi Lo Cascio incluso nella Settimana della Critica e l’importante ritorno di Daniele Vicari con La nave dolce.

E’ tuttavia da Orizzonti che si sono affacciati i due progetti più sorprendenti e inopinati del Festival, due piccoli gioielli a basso costo che non avrebbero affatto sfigurato se promossi al circuito maggiore della manifestazione: da una parte l’esuberanza contagiosa e irresistibile del sardo Salvatore Mereu, che con il suo Bellas mariposas – tratto dall’omonimo romanzo postumo di Sergio Atzeni – ha stregato critica e pubblico con un vivace fuoco d’artificio degno del primo Virzì, dall’altra il rigore minimalista e vagamente kiarostamiano dell’ischitano Leonardo Di Costanzo, documentarista all’esordio nel cinema di finzione con il piccolo ma pregnissimo L’intervallo, che nell’arco di novanta minuti esplora linguaggi e sfumature raramente rintracciabili nel panorama filmico nazionale e derivati, come già per l’affine L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, da un nient’affatto timido confronto con il meglio della produzione indipendente europea e asiatica.

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Oltre al succitato autore di Close-up, Di Costanzo ama citare Von Trier e i cineasti coreanu fra le sue influenze stilistiche principali, cosa che, in una nazione soverchiata dall’appiattimento da piccolo schermo di una buona metà dei prodotti per le sale, già sembra una dichiarazione di intenti per uscire dal tinello e dalla periferia per porsi dignitosamente al livello dei modelli di riferimento e delle circostanti cinematografie meno condizionate da una bieca logica di commercio. E in effetti, forse anche grazie al distacco del parigino d’adozione Di Costanzo dal belpaese, L’intervallo è girato con una sensibilità e con una concezione di messinscena che pare estranea ai mille pavidi compromessi di chi si mette dietro alla macchina da presa nei pressi di Roma o dintorni, uno stile avulso dalla ormai imperante scialbezza della fiction Rai e fiero di guardare all’autorialità dei fratelli Dardenne o del primo Kim Ki-Duk.

C’è da riconoscere, però, per una volta con orgoglio, che il debutto del documentarista campano è un’opera italiana in tutto e per tutto, nella quale sono confluiti talenti capaci di rappresentare degnamente il meglio del loro Paese, da Maurizio Braucci – uno dei sei co-sceneggiatori di Gomorra – al chitarrista Marco Cappelli, culminando con uno scatenato Luca Bigazzi questa volta anche in veste di operatore, che conferma ancora una volta la sua supremazia sul resto dei nostri direttori della fotografia.

Potrebbe aver luogo in qualsiasi angolo del mondo e in qualsiasi contesto sociale, L’intervallo, a riprova ulteriore del suo spirito cosmopolita, ma è altrettanto importante e connotante che l’azione si svolga a Napoli, più precisamente nel rudere fatiscente dell’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi e nell’incolto, giunglesco giardino ad esso circostante; si potrebbe parlare di qualsiasi organizzazione criminale e delle sue sopraffazioni più o meno squallide, ma si è scelto dichiaratamente di parlare di camorra e di meccanismi affini alla delinquenza del capoluogo campano; poteva esserci qualunque tipologia di coppia ad aggirarsi in totale solitudine per un contesto di reclusione forzata fisico e mentale, ma in questo caso ad inseguirsi, a confrontarsi, a conoscersi, a capirsi e (forse) ad amarsi sono gli adolescenti Salvatore e Veronica, lui venditore di limonate carceriere suo malgrado, lei seconda irrequieta prigioniera del primo e delle minacce di un piccolo boss del quartiere.

Al tramonto, quest’ultimo finalmente si farà vivo e chiarirà le proprie intenzioni in uno scioglimento coraggiosamente anticlimatico e tutt’altro che consolatorio, ma prima di allora i due ragazzi, aggirandosi per lo spoglio e quasi fiabescamente illuminato scheletro dell’edificio, avranno saputo trasformare la loro reciproca diffidenza in compassione, poi in complicità, poi (ancora forse) in amore. C’è un po’ di tutto, nel film di Di Costanzo, dal kammerspiel con camera raramente fissa all’inquietante gioco del gatto col topo con continui rovesciamenti di ruolo, fino – con l’esito forse più affascinante – alla fiaba gotica con tanto di spettri che sembrano aggirarsi per le stanze, fino alle dilatazioni claustrofobiche di Tsai Ming-Liang (si pensi a The hole – Il buco o a I don’t want to sleep alone), e tutto compresso in un sistema esiguo di esterni e interni, in due protagonisti – peraltro eccezionali – quasi sempre soli in scena, se si esclude la presenza preponderante di un ambiente che conta effettivamente come un terzo personaggio, in una durata ridotta all’osso e in un uso sapiente e calcolato degli spazi e delle situazioni.

Insomma, pur uscendo a mani vuote dalla sezione Orizzonti – nella quale, comunque, lo straordinario San zimei di Wang Bing era un avversario arduo da battere – l’opera prima di Leonardo Di Costanzo, già insignita del Premio FIPRESCI e passata per Toronto, è un esperimento che merita tutta l’attenzione possibile e che, opportunamente sostenuto, saprà certamente proporre un nuovo, rigenerante lato della cinematografia nostrana assai più competitivo e vincente di qualsiasi prodotto d’esportazione.

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