Se sono vere le dichiarazioni riportate dalla stampa, allora Gianni Amelio – pure se va annoverato tra i padri dell’italica patria cinematografica – ha preso una solenne cantonata, sbeffeggiando il Festival di Roma come riserva di pascolo di “registi mongoli” rispetto alla presenza di Dustin Hoffman alla “sua” kermesse torinese. E sì, perché Alexej Fedorchenko, autore di Spose celesti dei Mari della pianura, è un signor regista, che ha portato in dote alla rassegna capitolina la necessaria visionarietà e forza simbolica di cui ha disperato bisogno un festival cinematografico che abbia ambizioni artistiche un po’ più alte di un Fiction Fest…

Dopo Silent Souls, premiato a Venezia 2010, il cineasta di Ekaterinburg si cimenta con un progetto coraggioso, quasi folle, con ventidue ritratti di donne appartenenti ad una delle mille etnie della Russia, i Mari, di lingua ugro-finnica e di cultura più affine ai lapponi che ai russi. Situati nella regione del Volga e dotati di una propria Repubblica autonoma, i Mari non se la passano benissimo, collocandosi all’80° posto nella classifica dello standard di vita della Federazione russa. Quella di Fedorchenko non è però un’opera antropologica, né una pellicola superficialmente “etnica”, bensì un film impregnato di un lirismo bergmaniano, animato dalla potenza dei sentimenti delle sue protagoniste, dalla loro tensione verso un tipo di amore che è terreno e sanguigno ma al tempo stesso quasi panteistico.

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Infatti, le «Spose celesti», raffigurate in rapidi, talvolta brevissimi quadri, si muovono in un contesto profondamente immerso nella maestosa natura che le circonda, che incute un timore – panico, per l’appunto – per superare il quale occorre stringere alleanze con gli elementi, farseli amici e, prima ancora, comprenderli, interpretarli. Non per nulla, è lo sciamanesimo (ufficialmente riconosciuto nella loro repubblica autonoma insieme al cristianesimo ortodosso) la religione dei Mari, i quali sanno che devono rivolgersi ad un medium ben attrezzato per guidarne i passi e permettergli di sfuggire allo spettro della pazzia che incombe su chiunque viva troppo discosto dal consesso umano (così come, del resto, su chi ne sia all’opposto troppo contaminato). Insomma, la luce poetica che illumina «Spose celesti» irrompe in un mondo del cinema stereotipato, prigioniero di glamour, effetti speciali, autoreferenzialismo e stupido snobismo, a indicare la via dell’arte libera da schemi e preconcetti.

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