Non è un segreto che l’opera seconda sia per un cineasta il passo più arduo da compiere, specie dopo un esordio brillante, fortunato e già contrassegnato da una poetica dall’identità estremamente personale. Le cose si complicano ulteriormente quando al suddetto exploit si aggiunge non solo un importante riconoscimento – sia pur in una categoria collaterale – ricevuto bruciando le tappe, ma pure una carriera già collaudata e premiata in un contesto uguale e contrario al cinema come il palcoscenico.

Insomma, per Martin McDonagh, precoce autore di piece celebrate internazionalmente come Lo storpio di Inishmaan o The Pillowman, premio Oscar per il miglior cortometraggio con il nerissimo Six Shooter e regista di un film apprezzatissimo come In Bruges, il traguardo del lungometraggio numero due deve essere stato ancora più patito e tribolato: i quattro anni intercorsi fra l’esordio su sfondo belga e il ritorno dietro la macchina da presa con questo Sette psicopatici hanno visto il giovane commediografo irlandese alle prese con un periodo di riposo pressoché assoluto e all’insegna del viaggio, con un significativo spostamento del suo baricentro lavorativo e contestuale dalla Vecchia Britannia agli Stati Uniti e con A Behanding in Spokane, il primo progetto teatrale dai tempi della sua incursione nella Settima Arte e la sua prima fatica ambientata in terra americana.

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Sette psicopatici prosegue idealmente per questo percorso di transizione, recuperando non solo la localizzazione statunitense, ma anche due membri del cast originale della commedia di cui sopra, Christopher Walken e Sam Rockwell, insieme al ritrovato Colin Farrell e al futuro collaboratore Tom Waits, con il quale McDonagh è al lavoro per il suo primo musical; ulteriore ed inequivocabile segno di una fase di riflessione e di passaggio, Sette psicopatici è una pellicola intrisa di metacinema e di autobiografismo selvaggio, che intende dare forma all’intimo tormento di un uomo che sembra non aver previsto la portata considerevole del proprio successo, nonché la velocità e l’estensione con cui esso si è manifestato.

Il personaggio principale, a scanso di equivoci, si chiama Martin e, non molto imprevedibilmente, è uno sceneggiatore alcolizzato in crisi creativa, bloccato, come la sua controparte reale all’epoca, nello sviluppo di un soggetto che vede come protagonisti i sette psicopatici del titolo, ancora in via di definizione: a complicare la situazione saranno l’invadente amico Billy (Sam Rockwell) e il suo bizzarro espediente per sbarcare il lunario, ossia rapire cani e, con la complicità del vecchio Hans (Christopher Walken), restituirli per intascare laute ricompense, salvo poi innescare una letale reazione a catena sequestrando lo shih tzu del gangster Charlie Costello (Woody Harrelson).

La difficoltà sostanziale dell’impresa di McDonagh sta soprattutto nel coniugare una formula di puro intrattenimento con l’autenticità della confessione privata, nell’equilibrio fra il sofferto e cervellotico autoritratto d’artista e gli stilemi tradizionali del grottesco e del noir, a metà fra il mondo sofistico di Charlie Kaufman e, nonostante ne vengano pubblicamente prese le distanze, gli allegri massacri di Quentin Tarantino: in effetti, non c’è momento in Sette psicopatici in cui non si avverta, incombente e minacciosa, l’ombra di un autore in conflitto principalmente con se stesso e con la propria immagine di sé, preoccupato da prospettive ripetitive e manieristiche (“non voglio più scrivere di gente che va in giro con la pistola”, sentenzia il suo alter ego), dall’inaridimento della propria vena artistica, dallo scontro fra il peso atavico delle proprie origini provinciali, qui rappresentato dalla – a suo dire – congenita tara irlandese dell’alcolismo, e l’inospitalità della patria d’adozione, nella quale tanto gli amici quanto i nemici sembrano soffrire di una qualche insopprimibile malattia mentale.

Sette psicopatici - Christopher WalkenIn maniera meno giocosa, ma decisamente più autentica, vengono in mente i gemelli Kaufman de Il ladro di orchidee, due bipolari e speculari facce della stessa medaglia – la scrittura – divise fra il supplizio dell’invenzione e l’entusiasmo dell’incoscienza, che qui tornano nelle vesti rispettivamente del professionista Martin, che desidererebbe distaccarsi una volta per sempre dal proprio microcosmo di violenza, e del dilettante Billy, che vorrebbe invece stravolgere la sceneggiatura del primo riportandola su binari marcatamente più mainstream. Allo stesso modo, la storia si divide fra un primo tempo concitato che pare una versione raffinata dei meccanismi di Guy Ritchie ed un secondo tempo più ponderato e astratto che ricorda il Takeshi Kitano di Sonatine, con la sabbia del deserto californiano a sostituire quella della spiaggia di Okinawa (non a caso, a un certo punto, i protagonisti vedono al cinema Violent Cop), riflettendo quell’anti-climax con cui Martin vorrebbe concludere il suo film.

McDonagh, quindi, sceglie un approccio faceto e un andamento sgangherato per dissimulare la sua confusione, una prospettiva autoironica e consapevole, ma anche piuttosto furbesca, nella quale tutto, a cominciare dalla logica e dallo stile, sembra essere messo in secondo piano dalla necessità di completare un discorso che trascende il film stesso e che si colloca nella dimensione intellettuale dell’autore, che si preoccupa innanzitutto di mettere in scena le proprie ossessioni e i propri marchi di fabbrica, dall’insistita misoginia (la Kurylenko e la Cornish, sbattute sulla locandina, compaiono complessivamente per meno di dieci minuti e non fanno una bella figura) alla presenza ambigua della religione.

Ed è un peccato che, alla fine, si decida di porre al centro della vicenda la macchietta sovrabbondante di Sam Rockwell – attore di per sé già poco simpatico -, sacrificando comprimari sulla carta potenti (quello di Tom Waits è poco più di un cameo, neanche così memorabile) e la caratterizzazione di un universo davvero particolare ed eccentrico: per fortuna, all’attivo, ci sono dialoghi scoppiettanti e one-liner da citazione immediata (“Gandhi aveva torto”, una su tutte), che rendono più leggero e scorrevole l’andamento a singhiozzo degli eventi, e, soprattutto, un Christopher Walken divino, finalmente non relegato ad una partecipazione speciale ma all’opera su un minutaggio come si deve, che dà vita ad un personaggio sfaccettatissimo che rappresenta l’autentico cuore della pellicola e che porta magnificamente i tic e le pause del suo interprete.

Insomma, Sette psicopatici è un’opera pienamente – se non fin troppo – conscia del suo squilibrio, un divertissement che nasconde dentro di sé il clima di indecisione e di sospensione di un artista di indubbio talento al quale spetta solo di capire che cosa fare del proprio avvenire, un esperimento fragile ma ricco di intuizioni dal quale, per McDonagh, sarà fondamentale recuperare gli spunti più felici e lasciare alle spalle le paturnie del blocco dello scrittore.

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