Nel 1946, il musicista inglese Benjamin Britten concepisce The Young Person’s Guide to the Orchestra, breve composizione di natura squisitamente didattica il cui scopo era principalmente incoraggiare all’ascolto del repertorio classico gli ascoltatori più piccoli, mettendo in risalto le diversi componenti di un arrangiamento e ciascuna classe di strumenti in esso introdotta.
Musica per bambini, insomma, ma non musica da bambini, un atto di considerevole rispetto nei riguardi del pubblico infantile e una risposta intelligente e propositiva a chi confonde tenera età con mancanza di criterio, a chi crede che, sostanzialmente, “ai mocciosi si possa propinare di tutto”, sottovalutando pericolosamente la loro capacità di giudizio.
E’ con questo commento musicale che Wes Anderson decide di aprire il suo Moonrise Kingdom, e la dichiarazione di intenti non potrebbe apparire più esplicita: il regista di Rushmore fa sua una volta per tutte la lezione di François Truffaut – in primis, del suo Gli anni in tasca, modello inconfutabile del film – e, proseguendo lungo quella prospettiva ad altezza di bambino vista nell’ottimo Fantastic Mr. Fox, plasma un’opera che è innanzitutto un’ode alla purezza dell’infanzia e alla fragilità di quel periodo a ridosso della pubertà nel quale ogni cosa sembra ancora possibile.
Con i suoi giovanissimi protagonisti Sam e Suzy, conosciutisi durante una messinscena amatoriale del Noye’s Fludde (guarda caso, un’altra creazione di Britten) e travolti immediatamente da un sentimento in miracoloso equilibrio fra candore preadolescenziale e timid(e imitazioni d)i approcci sessuali, Wes Anderson ci invita subito a schierarci contro l’establishment di un mondo adulto palesemente smarritosi nelle proprie paturnie e nei propri fallimenti, regredito, fra tradimenti e frustrazioni, ad uno stadio assai meno evoluto della lucida incoscienza dei figli.
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A circondare e a tentare di scongiurare la “fuga d’amore” dell’inutile sottotitolo italiano sono infatti una potestà genitoriale assente (Sam è orfano), instabilmente surrogativa – dal mesto caposcout di Edward Norton al poliziotto complice di Bruce Willis, passando per la perfida istitutrice di Tilda Swinton – o inetta e disfunzionale, con una madre fedifraga (Frances McDormand) che comunica con la famiglia servendosi di un megafono e un padre (Bill Murray) distaccato e inaridito: non resta quindi che riparare in una piccola, selvaggia insenatura non lontana dal campeggio e da casa, ribattezzarla Moonrise Kingdom e giocare a diventare grandi prima che si scateni la tempesta, in tutti i sensi.
Benché la distribuzione nostrana si limiti a segnalare “i produttori di The Truman Show” e una non meglio identificata affinità con l’universo creativo di Tim Burton, Wes Anderson è senza dubbio il più riconoscibile e caratteristico cineasta americano della sua generazione, un autore dagli inconfondibili e reiterati marchi di fabbrica che, già dall’esordio di Un colpo da dilettanti, ha saputo dare vita ad un microcosmo pop che pare obbedire a regole tutte sue e ad una cifra stilistica che, esasperando il proprio manierismo, ha coniato un linguaggio uguale a nient’altro, con le sue perentorie panoramiche a schiaffo, i suoi finali in slow-motion, il suo uso ricorrente della rostrum camera, e via dicendo.
Moonrise Kingdom, prevedibilmente, non si distacca da questa tradizione tematica ed estetica, e il fatto in sé costituisce tanto un vantaggio quanto un ostacolo per la dimensione artistica del giovane autore texano: da una parte si mantiene quella coerenza espressiva con cui distinguersi dallo standard e si raggiunge un alto livello di confidenza con lo zoccolo duro dei propri seguaci, pronti, ogni volta, a trovarsi di fronte al consueto appuntamento con il loro regista di riferimento; d’altro canto – ed è una realtà con cui anche il fan più strenuo è costretto a confrontarsi – si arriva alla conclusione che un cinema ormai decodificato come quello di Wes Anderson non riesca più a sorprendere e ad offrire niente di nuovo, limitandosi a riproporre uno schema di bizzarrie che già a metà della sua produzione sembrava aver mostrato la corda.
E’ anche vero che, con il tempo, la tecnica si è affinata, i giochi di macchina si sono fatti più elaborati (la presentazione iniziale, quasi una dissezione, dell’abitazione dei Bishop, è di un gusto impareggiabile), la concezione dell’immagine ha abbandonato la rigidità degli esordi, ma ciò non basta a colmare il senso di una freschezza che è andata irrimediabilmente perduta e che era stata fugacemente rinverdita dall’ancorché iperautocitazionista ma eccellente esperimento in stop-motion di Fantastic Mr. Fox; la ricchezza formale e la perizia ai confini del pittorico nel riempire l’inquadratura finiscono per essere un paravento irresistibile sistemato davanti a difetti che, di pellicola in pellicola, cominciano a farsi inevitabilmente ingombranti, a partire da un divertimento fattosi meccanico, ricercatamente bislacco, se non addirittura autistico e, soprattutto, una scrittura sempre più ellittica, chiusa nelle sue idiosincrasie e nei suoi tic, tanto da domandarsi se sia stata la scelta giusta aver sostituito il fido Owen Wilson – coautore delle sue prime tre (e più riuscite) fatiche – con collaboratori più “vulnerabili” come Noah Baumbach e, nel caso specifico, Roman Coppola, le cui carenze in veste di sceneggiatore e i cui punti di contatto con la poetica andersoniana si sono notati chiaramente nel suo recente, esile A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III, in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2012.
Certo, non è facile fare i conti con un percorso professionale giunto al capolavoro appena al terzo tentativo, con quella perfetta e portentosa armonia realizzatasi ne I Tenenbaum, uno dei capitoli più rappresentativi e imprescindibili della cinematografia statunitense dello scorso decennio, ma con Moonrise Kingdom appare ancora una volta evidente la necessità per Anderson di osare di più e di non accontentarsi di ripetere la formula ad libitum (progetti come Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Il treno per il Darjeeling, seppur validi e non privi di pregi, hanno patito il medesimo destino): eppure, volendo non badare eccessivamente al discorso autoriale, Moonrise Kingdom non può non affascinare, con il suo gentile cromatismo autunnale smaccatamente andersoniano che contrasta con il contesto estivo della vicenda, con il suo potere contagioso di trasformare anche il minimo dettaglio in qualcosa di iconico (a cominciare, come al solito, dai costumi), con la sua abilità di districarsi ironicamente fra gli stereotipi più tradizionali, dalla natura tipicamente dickensiana del personaggio della Swinton e del prefinale ai canoni della Nouvelle Vague, con frequentissime citazioni de Il bandito delle ore undici (non va dimenticato che la storia è ambientata nel 1965, anno d’uscita del classico di Godard).
Moonrise Kingdom resterà con tutta probabilità il punto di partenza ideale per avvicinarsi al cinema di Wes Anderson, ed è ad oggi il suo film più amato, in particolare in patria, dove viene data quasi per assicurata la sua presenza fra i candidati agli Oscar 2013: troppa grazia, considerato anche l’irreplicabile precedente de I Tenenbaum, ma anche, in attesa della svolta drammatica in salsa mitteleuropea di The Grand Budapest Hotel, il chiaro sintomo di una carriera prossima a sbloccarsi e a crescere finalmente fuori dai propri schemi.
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