Presentato Fuori Concorso a Cannes, La bottega dei suicidi arriva in sala dopo aver superato la rigida prova censura (inizialmente la pellicola era stata vietata ai minori di 18 anni per rischio emulazione, provvedimento poi ritirato). Si tratta del primo film di animazione del regista, attore, sceneggiatore e fumettista francese Patrice Leconte. Al grido di “Trapassati o rimborsati”, Leconte traduce in immagini e canzonette l’omonimo best seller di Jean Teulé portando al cinema la bizzarra e macabra storia della famiglia Tuvache, che da generazioni gestisce una bottega di prodotti da suicidio (corde, armi, veleni e lamette usate e arrugginite, che se non muori per le ferite inferte, ci pensa il tetano a strapparti alla vita).

In una città triste e grigia dove la gente si trascina per le strade con il capo chino e il vuoto negli occhi e in cui la luce del sole non trova spazio tra gli immensi palazzi di cemento, c’è un angolo colorato e illuminato: la bottega dei suicidi. Gli affari vanno a gonfie vele per i proprietari Mishima e Lucréce, che hanno due figli, l’apatico Vincent e l’insicura Marilyn, e sono in attesa del terzo. Sarà proprio l’arrivo del nuovo membro della famiglia, Alan, un ragazzino col sorriso perennemente stampato in faccia, a stravolgere le loro vite.

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La bottega dei suicidi è, di fatto, un musical animato con la tecnica del 2D in rilievo ed offre al pubblico un risultato che ricorda molto da vicino un libro pop-up. Leconte ci accompagna in ambienti ricchi di dettagli, vissuti dai suoi protagonisti che tanto ricordano quelli di film e serie TV arcinote al grande pubblico (il capofamiglia Mishima è identico al Gomez de La famiglia Addams e i rimandi alla cinematografia di Tim Burton non si contano). Attraverso il netto contrasto tra la grigia città e il vicoletto in cui si trova la colorata bottega dei Tuvache, isola felice per vite infelici, passa il messaggio chiave e la tendenza che anima gli abitanti di questa non meglio identificata metropoli privi di ogni speranza e desiderio: la morte è gioia, in quanto unica alternativa ad una vita che ormai non può offrire altro che tristezza. E dato che si muore una volta sola, tantovale renderla indimenticabile.

L’ironia nerissima, la presa in giro del suicidio e il tentativo costante di esorcizzare la morte sono gli elementi più interessanti dell’opera di Leconte, che nei momenti cantati tuttavia attraversa delle fasi di stanca. Peccato poi che nel finale il regista abbia preso le distanze dal libro, optando per un happy end che risulta quantomeno incoerente con quanto mostrato fino a quel momento. Perfetta per i tempi e assolutamente coraggiosa la scelta dei temi proposti e il modo in cui vengono affrontati (soprattutto se si pensa che il film esce durante le feste), una macchia non essere riusciti a portarli avanti fino in fondo.

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