Django Unchained o del Manierismo tarantiniano”. Terminata la visione del nuovo film di Quentin Tarantino, ho percepito nella stampa, intorno a me, giudizi contrastanti su quanto il film fosse innovativo o ripetesse stilemi ed un linguaggio formale “alla Tarantino”, su quanto i riferimenti all’originale Django di Sergio Corbucci fossero strumentali, sull’indubitabile capacità cinematograficamente “assoluta” del regista americano. Si, perché in questo film – criticabile dai puristi del cinema cult italiano, contestabile dai cultori internazionali  del regista, appassionati di una sua supposta Età dell’Oro ai tempi de Le jene – la capacità eminentemente cinematografica di Tarantino è eccezionale, indubitabile.

Non parliamo di gestione delle scene d’azione, di sapiente gestione dei momenti pulp e gore, di creazione di figure-mito, di eroi epici (di cui il Django interpretato da Jamie Foxx è solo il nuovo rappresentante di quella genìa); ma della fusione di tutte queste capacità demiurgiche in una sintesi superiore che produce un’essenza impalpabile ma percepibile, un’alchemica fusione dello spazio e del tempo reali in una nuova dimensione esclusivamente cinematografica. Una distorsione della linearità del reale in una circolarità del film.

Il regista che possiede l’innata dote della Cinematografia, istintivamente utilizza il linguaggio cinematografico ma pensa anche il Mondo con quella Lingua. Un Aramaico non da recuperare ma da inventare, da parlare in trance, un prodigio divino, una dote sacerdotale che a volte, nell’arco di una carriera, uno stesso regista può anche perdere. Perché, ad esempio, pur condividendo eccezionali capacità stilistiche e tecniche, Steven Spielberg è un  ottimo director mentre Stanley Kubrick sembra essere un Vate, un Profeta, che sa scolpire, scalfire, scarnificare la materia reale per trarne fuori il Mito?

Tarantino non ha ancora estratto il Sacro Graal del Mito dal Reale ma interviene in modo così volitivo e visionario sul Reale da riformarlo, ricrearlo sulle  forme del Mito. Kubrick, Tarantino, Hitchcock, pochissimi altri, hanno realizzato immagini “inevitabili”, “definitive”. “Necessarie”. Django Unchained manieristicamente riprende l’ispirazione e l’anima del precedente Bastardi senza gloria, non ripete le vette di geniale creatività di Kill Bill, è un meraviglioso omaggio non tanto a Corbucci quanto a Leone e Peckimpah; eppure è un capolavoro visivo, un geniale gioco metacinematografico citazionista alla Tarantino che, da sempre, non racconta la realtà, sociale o privata che sia, ma racconta l’Universo Chiuso ed apparentemente autoreferenziale del Cinema. Cinema che  può essere una metafora della Realtà o, meglio, una metafora della Mente Umana che è lo strumento interpretativo e cognitivo della Realtà.

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Come nel dichiarato e dichiarante finale de E la nave va di Fellini, anche nel finale di Django Unchained o – in modo ancora più provocatorio, in quello di Grindhouse dello stesso Tarantino – il cinema non si propone come mimesi e racconto del Reale ma come Nuovo Reale, come Universo-Stringa Parallela alla quale solo alcuni eletti, aruspici, veggenti possono accedere. Quelli che hanno la sapienza del Cinema, non solo la tecnica cinema.

Si potrebbe proseguire questo delirio critico-interpetativo a lungo ma ci fermiamo qui. Era semplicemente a dimostrazione di quanto un grande film, il grande cinema, l’Arte Assoluta producano anche nei fruitori una Visione, una Riflessione più alta e complessa. Volendo fare un riferimento più diretto al film, ho trovato interessante come, al modo della drammaturgia classica, Tarantino abbia diviso le figure dei protagonisti del film, in eroi bidimensionali, da fumetto Marvel o alla Tex Willer, ed antieroi più sfaccettati psicologicamente, più affascinanti e intriganti per i grandi interpreti, tutti in Django Unchained, coinvolti. Una figura esplicitamente fumettistica è proprio il Django foxxiano, come la sua moglie-Brunilde sa salvare come in una saga nibelungica. Bella ed inespressiva come solo una classica eroina deve essere. Molto più articolate e divertenti le personalità del buono-cattivo Dr. King Shultz interpretato dal geniale Christoph Waltz, già eroe negativo nazista in Bastardi senza gloria ed il cattivo-cattivo Calvin Candie, ovvero un Leonardo DiCaprio sempre più eclettico e ambiguo.

Ed infine, l’altra icòna tarantiniana, Samuel L. Jackson che interpreta il nero-contro i neri Stephen che, nella sua figura meschina e contraddittoria, sintetizza la violenza psicologica atavica, con tutte le sue patologie, esercitata per secoli sui neri. Ma se la figura di Stephen non è salvabile nell’ambito del racconto cinematografico, si riscatterà nel finale meta cinematografico in una morte-omaggio ad Il buono, il brutto, il cattivo. Puramente strumentale e decorativa la presenza di Franco Nero, il primo Django, quello inventato da Sergio Corbucci.

Si parla già di un terzo film, previsto per il 2014, con cui Tarantino chiuderebbe una trilogia della Vendetta, dopo Inglourious Basterds e Django Unchained. Forse però, al terzo film, veramente si potrebbe parlare di Manierismo tarantiniano. Ma da Quentin Tarantino, ci aspettiamo sempre la Meraviglia e la Sorpresa che il cinema ci trasmetteva, le primissime volte che andavamo in sala, da bambini. E che solo lui, e pochi altri maestri, ancora sanno risvegliare.

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