Una storia scomoda, difficile, concepita ben prima che Bin Laden venisse catturato ed ucciso, perciò riscritta alla luce di questo avvenimento cardine. A dirigerla, la signora di Hollywood Kathryn Bigelow, che ancora una volta dimostra di sapersi muovere perfettamente in contesti maschili e brutali. Dopo i sei Oscar vinti con The Hurt Locker nel 2010, scippati con un certo gusto al suo ex marito James Cameron che con Avatar, in quello stesso anno, puntava all’en plein, ora la Bigelow torna a parlare di guerra portando sullo schermo i dieci anni di caccia allo sceicco del terrore. Respingendo i cliché che ci si potrebbe aspettare di trovare in una sceneggiatura hollywoodiana sull’argomento e alleggerendo la storia da retorica e inutili eroismi, la regista sceglie di affrontare il tema in modo freddo e distaccato, con uno stile che spesso rasenta il documentario. Un approccio che si intuisce sin dalla scelta del titolo, termine militare che indica un’ora imprecisata nella fascia di tempo compresa tra la mezzanotte e mezza e le quattro del mattino, fascia oraria caratterizzata dal buio più completo e per questo prediletta per le incursioni.
La componente drammatica fa capolino solo nella prima scena che si apre su schermo nero con l’audio delle voci terrorizzate sentite centinaia di volte, quelle delle telefonate di chi, l’11 settembre del 2001, si trovava all’interno del World Trade Center sotto attacco ed avvisava amici e familiari di quello che stava accadendo. Poi lo sguardo si sposta su Maya (Jessica Chastain), giovane e brillante agente dei servizi segreti che, dopo i tragici eventi di quel giorno, viene incaricata di scovare Bin Laden. La CIA la manda in Pakistan a lavorare con Dan (Jason Clarke). Nei primi mesi, l’incarico della ragazza è di assistere il collega durante gli interrogatori in prigioni non localizzate dove si ricorre a barbari metodi di tortura per trovare elementi che possano portare a scovare elementi utili a trovare il nascondiglio del nemico. Gli anni passano, tra attentati e rivendicazioni, e Maya inizia a comporre i pezzi di un mosaico che la porterà a scoprire dove si rifugia Bin Laden ed a convincere la CIA ad organizzarne la cattura.
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=exn0voVwGC4[/youtube]
Molto più ambizioso di The Hurt Locker, sia per i temi trattati che per la scelta narrativa di voler realizzare un prodotto schietto e capace di centrare il bersaglio senza inutili fronzoli, Zero Dark Thirty conferma Kathryn Bigelow come la migliore regista sulla piazza ed il suo sceneggiatore (e compagno) Mark Boal un acuto osservatore dell’evoluzione delle dinamiche politiche e sociali (anche per la sua esperienza diretta come inviato in Iraq). Non parleremo delle polemiche che il film si porta dietro, iniziate ancora prima che venisse distribuito, così come non accenneremo alle accuse da parte di tre senatori americani che hanno pesantemente ostacolato la pellicola, vedendo nelle scene di tortura realmente accadute e meticolosamente ricostruite per dovere di cronaca dalla regista, una sorta di sdoganamento verso le cosiddette “pratiche di interrogazione intensificata” da parte del governo americano.
Ci soffermeremo invece sulla lucidità con cui Zero Dark Thirty porta avanti le ragioni della protagonista (un personaggio reale a cui Boal e la Bigelow si sono ispirati), una donna politicamente e socialmente poco influente che grazie alla sua dedizione, che si trasforma presto in ossessione, nei confronti del “nemico dell’Occidente”, riesce nell’impresa in cui tutti gli altri avevano fallito. Il personaggio di Maya (nomen omen) in questo senso si fa metafora e diventa colei che fa cadere il velo illusorio dagli occhi delle alte cariche, risvegliandoli dal letargo conoscitivo in cui erano caduti e portandoli finalmente a contemplare e raggiungere l’essenza della realtà (nascondiglio e conseguente cattura di Bin Laden). Bravi anche i comprimari, facce vere e ben assortite all’interno di un cast corale e ben amalgamato composto, tra gli altri, da Joel Edgerton, Jennifer Ehle e Kyle Chandler.
Una storia asciutta ed essenziale che per due ore si concentra sui retroscena meno noti della caccia al terrorista per diventare spettacolare nell’ultima mezz’ora, con il raid nella villa-bunker di Abbottabad da parte dei Navy Seal. Niente spettacolarizzazione della morte di Bin Laden né glorificazione, solo il lavoro di una squadra alle prese con spossanti ostacoli burocratici e scartoffie poco attendibili da analizzare in ufficetti polverosi messi a disposizione dai servizi segreti americani, ben lontano dalle vivide efficienze a cui ci hanno abituati film come Mission: Impossible. Ma nonostante la “quotidianità” che vediamo sullo schermo, la Bigelow riesce a tenerci incollati alla poltrona per oltre due ore e mezza padroneggiando perfettamente i meccanismi della suspense e regalandoci il film più completo e riuscito della sua carriera. E poco importa se l’Academy non ha ritenuto opportuno inserire il suo nome nella rosa dei cinque finalisti in corsa per l’Oscar come Miglior Regista, riservando invece un posto, meritatissimo, a Jessica Chastain per la sua interpretazione, perché tanto Zero Dark Thirty rimarrà nella storia, tra le pellicole migliori di sempre.
[Thanks to Movielicious!]
[…] Yaakov Peri), che fa leva ancora una volta, come tanta produzione americana recente (da Lincoln a Zero Dark Thirty, passando per Argo), sul vecchio adagio secondo cui “il fine giustifica i mezzi”, […]