South of the Border è il titolo originale di questo documentario di Oliver Stone, girato nel 2009 ma che, pur presentato alla 66ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, esce solo adesso, sulla scia dell’interesse internazionale per il Venezuela dopo la scomparsa (5 marzo) di Hugo Chávez e le elezioni presidenziali di domenica scorsa. Elezioni svoltesi, e non poteva essere diversamente, nel segno del “compagno presidente”, rivoluzionario bolivariano o – come i suoi avversari lo chiamavano di spregiativamente, alludendo alla tradizione autoritaria dei governanti dei Paesi latini – caudillo. Sta di fatto che il suo vice, Nicolás Maduro, ne ha raccolto l’eredità (simboleggiata dal pajarito, l’uccellino posato sulla spalla) vincendo di stretta misura un’elezione che difficilmente darà un governo stabile ai venezuelani.
Il film, distribuito da Flavia Parnasi e Andrea De Liberato con la Movimento Film, è in sala con una uscita-monstre: ben 150 le sale italiane che lo programmeranno. Un modo per cercare di superare le difficoltà che il genere documentaristico trova nel farsi apprezzare dal pubblico italiano. Naturalmente, c’è anche il peso specifico di un regista come Oliver Stone, che quasi un lustro fa ha fatto rotta verso sud con la sua troupe per offrire un’efficace carrellata sulla politica in America Latina, scrivendo una solida sceneggiatura con l’aiuto del saggista anglo-pakistano Tariq Ali.
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In realtà l’interesse di Stone per ciò che succede “a sud del confine” non è dell’ultima ora: dopo il lungometraggio di fiction “Salvador” (1986), nel 2003 e 2004 ha girato due documentari su Fidel Castro con lo stesso produttore, Fernando Sulichin. Ecco perché nel suo omaggio a Chávez non c’è solo il “compagno presidente”, ma anche altre figure chiazve come Evo Morales, ex leader cocalero e primo capo dello Stato indio della Bolivia, Cristina Kirchner, già first lady dell’Argentina, Rafael Correa in Ecuador, l’ex vescovo dei poveri Fernando Lugo (Paraguay), l’ex sindacalista Lula in Brasile e Raúl Castro a Cuba, tappa quanto mai significativa sia per i legami molto stretti con il líder máximo Fidel, sia perché è a medici cubani che si è rivolto per cercare di combattere il tumore che lo ha ucciso.
Il film, che mantiene un ritmo in grado di inchiodare alla poltrona anche lo spettatore più indifferente alla politica, mette a confronto la martellante propaganda dei grandi media statunitensi, che obbediscono all’imperativo governativo di additare all’America il nemico pubblico numero uno di turno, che si chiami Saddam Hussein o appunto Hugo Chávez.
Poi spunta il faccione di Michael Moore, e i dubbi sulla credibilità dello staff repubblicano di Bush quando vanno in cerca di armi di distruzione di massa diventano certezze. Soprattutto quando gli USA vantano quali amici capi di Stato come Uribe, il presidente colombiano che scatenando una guerra letale alle FARC ha contribuito più di ogni altro al massacro di civili innocenti: Stone mostra come la divisione manichea tra buoni e cattivi fatta da Washington corrisponde esattamente alla divisione tra i governi che curano gli interessi a stelle e strisce e quelli che, invece, cercano di combattere la povertà diffusa in America Latina. Militare di professione prima, animale politico poi, Chávez è da annoverare certamente tra questi ultimi, ravvisando la necessità già nel 1997 di lottare contro la corruzione devastante con cui si arricchivano le élite del Venezuela alle spalle dei poveri del Paese, dagli abitanti degli squallidi ranchitos di Caracas alle contadini sfruttati.
Il colpo di Stato fallito non sarà però uno dei tanti fuochi di paglia che caratterizzano le schermaglie istituzionali in America Latina: Chávez sarà eletto con un ampio consenso popolare, e da lì partirà per lanciare la sua rivoluzione bolivariana, che ha significato in primo luogo nazionalizzare la fiorente industria petrolifera locale e – di conseguenza – incrementare considerevolmente il prodotto interno lordo, a beneficio di tutta la popolazione. L’esempio di Chávez viene seguito da altri leader, diventa un vero e proprio contagio, temutissimo dagli Stati Uniti che controllano il Fondo monetario internazionale, struttura dell’ONU che è andata rivelando la sua natura di “braccio armato” del neoliberismo: non a caso tutti i leader intervistati puntano il dito contro l’FMI e le sue famigerate politiche di aggiustamento strutturale che nei decenni passati hanno forse evitato il fallimento di molti Stati del terzo mondo ma sicuramente hanno causato l’aumento del divario tra ricchi e poveri negli stessi Stati.
Affascinante, poi, il ritratto che emerge di Evo Morales, un vero indio divenuto presidente della repubblica – nella fattispecie, della Bolivia. La cultura della foglia di coca è qualcosa di più di semplice folklore, è un rimedio antico contro il mal d’altitudine tipico del Paese andino e, al tempo stesso, il simbolo della resistenza alla “guerra alla droga” propagandisticamente lanciata da governi nel migliore dei casi ottusi e dai loro “killers”, come la famigerata DEA, l’agenzia federale incaricata di sradicare la droga; peccato però che il suo vero ruolo sia stato ormai da etmpo smascherato, e che di conseguenza la Bolivia ne abbia espulso i funzionari…
Tappa di grande spessore, quella alla Casa rosada di Buenos Aires, abitata ora da Cristina Kirchner, passata rapidamente da first lady del compianto Nestor a “presidenta” di un grande Pase. La determinazione di questa donna è rimarchevole, così come lo è l’aneddoto da lei rivelato sull’incontro tenutosi nel 2001 tra il consorte e il presidente Bush, che cercava di persuadere l’interlocutore che la cosa migliore, per un’economia in crisi, era una bella guerra, vero volano dello sviluppo!
In definitiva, pur se in un quadro che sfiora l’agiografia, Oliver Stone ricostruisce vita e opere di Hugo Chávez, irrimediabile villain per i conservatori a stelle e strisce ma – come riconosce il presidente dell’Ecuador, Correa – fulgido esempio di coraggioso statista popolare in un continente troppo a lungo dominato da rapaci ceti di superprivilegiati.
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