Se pensiamo all’ipnosi come a una tecnica un po’ stregonesca e un po’ cialtrona per imbambolare un individuo allo scopo di costringerlo ad assecondare ogni richiesta dell’ipnotizzatore siamo decisamente fuori strada. O meglio, la nostra errata concezione si basa su antichi pregiudizi, confermati dai fumetti e dai film, che in parte continuano a impedire, soprattutto in Italia, la diffusione di questa efficace terapia praticata specialmente per aumentare le prestazioni sportive di un atleta, per supportare interventi psicologici ed educativi, o per favorire l’abbandono della sigaretta o della bottiglia…
In realtà, l’ipnosi è una forma di comunicazione che aiuta a cercare dentro se stessi quelle risorse utili al superamento di alcune difficoltà di ordine psicologico o pratico. E l’ipnotista, da non confondersi con lo psicanalista, è colui che aiuta la persona in difficoltà mediante il recupero delle proprie potenzialità interiori. Detto ciò risulta più semplice comprendere le ragioni del prepotente successo de L’ipnotista, il best seller di Lars Kepler tradotto in 34 lingue, edito in Italia – dove ha venduto 350.000 copie – e ristampato da Longanesi in un nuovo formato in occasione dell’uscita (11 aprile) del film omonimo.
Svariati sono i motivi, e non tutti relativi al cinema, che porteranno gli spettatori nelle sale a farsi incantare da questo noir di ambientazione scandinava che ricalca atmosfere, situazioni e paesaggi ormai noti, data la popolarità che la trilogia Millennium ha ottenuto anche da noi. Intanto, Lars Kepler (chiaro omaggio al compianto autore di Uomini che odiano le donne, nonché all’astronomo Keplero, il quale formulò la teoria delle orbite ellittiche) è lo pseudonimo dei coniugi Alexander Ahndoril e Alexandra Coelho, entrambi scrittori con una propria distinta carriera, ma che nel 2009 hanno deciso di comporre un romanzo insieme. Così è nato il caso editoriale che ha scalzato dalla vetta delle classifiche svedesi le crime stories di Stieg Larsson. Naturalmente, all’Ipnotista hanno fatto seguito L’esecutore (2010) e La testimone del fuoco (2011), anch’essi destinati alla riduzione cinematografica.
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Un altro elemento d’interesse, stavolta più a beneficio degli addetti ai lavori, è costituito dal ritorno in Svezia, per la prima volta dopo 25 anni, del regista trapiantato a Hollywood Lasse Hallström (Le regole della casa del sidro, Chocolat, Hachiko), un cineasta conosciuto specialmente per le commedie e le pellicole sentimentali. Ecco uno stralcio delle sue dichiarazioni: “Ho sempre voluto potermi cimentare con il thriller, ma non si sono presentate per me molte opportunità per poterlo realizzare negli Stati Uniti. Non è quello che la gente si aspetta da me, quindi non sono mai stato veramente considerato per questo genere. Nonostante nel passato io mi sia concentrato su temi più delicati, non mi farò spaventare dagli aspetti violenti di questa storia.”
È proprio la violenza la protagonista delle prime sequenze; ma più che la meccanica esecutiva impressiona la scena del delitto che si presenta alla polizia dei dintorni di Stoccolma: un istruttore di basket pugnalato alle spalle in palestra, la moglie e la sua bambina massacrate in casa, il figlio quindicenne riverso in una pozza di sangue in bagno, in fin di vita. Inoltre, Evelyn, la figlia maggiore, è misteriosamente scomparsa. L’ispettore Joona Linna (Tobias Zilliacus) non possiede alcun elemento valido per individuare i responsabili di quella carneficina, nessuna traccia biologica, nessun indizio, neppure il movente dell’accanimento nei confronti di quella famiglia.
Josef (Jonatan Bökman), l’adolescente sopravvissuto, piantonato in ospedale, potrebbe fornire le risposte decisive se non oscillasse tra la vita e la morte in uno stato di semi-incoscienza. Ma Daniella Richards (Helena af Sandeberg), il medico che ha prestato il primo soccorso al ragazzo, suggerisce all’investigatore l’intervento dello psichiatra Erik Maria Bark (Mikael Persbrandt, già apprezzato nello struggente In un mondo migliore), un famoso specialista della terapia ipnotica, per carpire al giovane – prima possibile – le informazioni necessarie alla risoluzione del caso.
L’analista, però, vive un periodo di grave crisi del suo rapporto coniugale, e accusa una ormai seria dipendenza dagli psicofarmaci; tuttavia Joona Linna riesce a persuaderlo a comunicare con Josef, ancora interdetto al mondo esterno a causa dello choc subito. Utilizzando le suggestioni di metafore e racconti, e affrontando direttamente argomenti relativi al contesto familiare, Erik riesce a interrogarlo sull’accaduto ricavando così un’importante chiave di lettura dell’evento criminoso. Nelle ore successive, però, il rapimento di suo figlio Benjamin (Oscar Pettersson), emofiliaco, una ritorsione – evidentemente – per la sua attività a supporto delle indagini, getta Erik, e soprattutto la sua compagna Simone (l’intensa Lena Olin, moglie del regista nella vita reale), in una situazione di profonda tensione, dalla quale potrà uscire solo intraprendendo un pericoloso viaggio negli oscuri meandri del subconscio…
Da quel momento in poi le vicende accennate procederanno parallelamente fino a convergere nello scioglimento finale, grazie a un intreccio ben congegnato e a un avvincente crescendo drammatico, che testimonia la raggiunta maturità espressiva e la buona disposizione di Hallström ad adattarsi agli stilemi e alle ricorrenze del genere. Qualora non si ritenga di attribuire all’autore di La mia vita a quattro zampe l’ulteriore merito di manipolare con perizia un soggetto già validissimo, e la capacità di dirigere un cast sobrio e ben assortito, aggiungeremo che l’originalità di questa direzione è costituita anche dal ritratto di una Stoccolma prenatalizia, prevalentemente buia, oppressa dal gelo e dalla nebbia.
Ottimi ingredienti per un racconto giallo, che conferiscono una luce non soltanto letteraria a una delle più belle capitali d’Europa, con un centro storico medievale ottimamente conservato; una città costruita su 14 isole, in una natura incontaminata che vanta pure il primo parco nazionale urbano del mondo. Ebbene, tutto questo non viene affatto mostrato, e ciò è funzionale alla storia, così come le riprese aeree di un’inquietante uniformità urbana, priva di centri d’interesse riconoscibili, una sorta di infinita periferia in cui un’adolescenza alla deriva, educata nell’indifferenza e nel cinismo, e distrattamente nutrita da junk food e cruentissimi videogame, attende un futuro ormai vicino in cui assumerà le fogge degli straniti assassini seriali, che forse trucideranno i genitori che l’avranno allevati, che magari si faranno esplodere in un asilo infantile, oppure mitraglieranno i colleghi di lavoro, o ancora, vegeteranno nell’attesa di una guida carismatica che li trasporti in streaming nell’oblio dell’autodistruzione, o in un ideale nichilista che propugni, in un orgia di farneticazioni religiose o razziali, il prossimo annientamento del mondo.
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