Nella casaQuindici anni fa, la Settimana Internazionale della Critica del Festival di Cannes accoglieva nella propria selezione lo scandaloso Sitcom, aggiornamento in chiave grottesca e in tonalità kitsch delle invettive antiborghesi di Teorema, dissacrante e velenosa progressione di archetipi e convenzioni socio-familiari fatti a pezzi con tutta la cruda veemenza di un cineasta alle prime armi.

Si trattava del debutto sulla lunga distanza, acerbo e incattivito, del parigino François Ozon, assurto oggi, dopo una prolifica carriera divisa fra messinscene fassbinderiane (Gocce d’acqua su pietre roventi), sommessi realismi antonioniani (Sotto la sabbia), tributi all’estetica di Jacques Demy (8 donne e un mistero) e omaggi al melodramma statunitense di stampo wyleriano (Angel), al rango di regista di culto e di abile, poliedrico, ma coerente manipolatore del linguaggio filmico tradizionale, nei cui più bassi registri ha giocosamente, provocatoriamente sguazzato con considerevole, ancorché compiaciuta ironia, bilanciando il tutto con un’attenzione formale e un’affettazione estetica su modello del nume tutelare Douglas Sirk.

Dopo la divagazione brillante di Potiche, accolto trionfalmente dal pubblico a Venezia 2010, l’autore de Il tempo che resta si ripresenta con una riedizione ancor più scopertamente metanarrativa dei temi e dei caratteri cardine della sua poetica, riflettendo maliziosamente sull’idea di mistificazione artistica, sulla labilità del confine fra realtà e finzione e sul circolo vizioso che lega a doppio filo azione e ispirazione, traendo spunto dalla piéce Il ragazzo dell’ultima fila, dello spagnolo Juan Mayorga.

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Ancora una volta, al centro dell’universo di Ozon troviamo l’elemento perturbante, l’imprevisto granello di sabbia capace di far inceppare il complesso, delicatissimo meccanismo vitale della classe media, l’Ospite inatteso che finirà per mettere in discussione le certezze di tutti, ma con una significativa aggiunta strutturale che altera l’intero impianto della storia e con una prospettiva etica che lascia intendere che in Ozon sia cambiato significativamente qualcosa: la storia dell’adolescente proletario Claude, entrato  gradualmente nelle simpatie del nucleo familiare e, per l’appunto, nella casa dell’amico borghese Rapha, è raccontata attraverso brevi, romanzesche composizioni regolarmente consegnate al suo insegnante di francese, Germain Germain (un ottimo Fabrice Luchini, volto ricorrente del cinema di Eric Rohmer, in un ruolo che trent’anni fa sarebbe stato perfetto per Michel Serrault e che nel nome richiama fortemente il nabokoviano Humbert Humbert), romanziere mancato conquistato dalla predisposizione letteraria del ragazzo e trascinato da una indiscrezione ai limiti della scopofilia, che, come un qualsiasi lettore coinvolto da un narratore inattendibile in/per quanto onnipotente, non riuscirà più a distinguere il vero dal falso e si vedrà ridimensionare di volta in volta il ruolo di burattinaio degli eventi che credeva di interpretare, manipolato dagli sviluppi reali di quegli eventi che credeva fittizi.

E’ un gioco di seduzioni e di suggestioni in tutto e per tutto affine e antitetico a quello di Swimming Pool, meno formulaico e più deliberatamente smaliziato: l’esplicita – e pruriginosa – tensione lesbica di Charlotte Rampling nei confronti di Ludivine Sagnier viene qui chiaramente confutata da un’attrazione esclusivamente teorica e psicologica, che ribalta continuamente il rapporto schiavo/padrone fra chi insegna e chi impara, fra chi racconta e chi legge, fra chi descrive e chi è descritto, rendendo al contempo tutti quanti vittime e tutti quanti carnefici di un crudele sistema di affabulazione (Pasolini, di nuovo) non diverso dalla dominazione sessuale, più volte evocata ma mai apertamente, inconfutabilmente confermata dai fatti.

Nella casa

Si evolve, quindi, il sistema dinamitardo di Sitcom, con il suo sistema di pulsioni non più scatenato da un agente esterno puramente allegorico e fine a se stesso – il topolino bianco – ma plasmato (fino a che punto solo nella fantasia?) da un elemento di disturbo che si scoprirà essere più fragile e umano degli altri, guidato principalmente dalla necessità di una normalità negatagli dalle circostanze e dal ceto: Nella casa si trasforma così in un saggio sfaccettato sul voyeurismo, sulla necessità di proiettarci altrove per colmare il vuoto, e non è casuale che il consueto cannibalismo di Ozon, questa volta, lasci spazio ad una visione compassionevole nella quale l’autore sembra aver imparato a rispettare i suoi personaggi per non demolirli più categoricamente, non osservandoli più con lo scherno degli esordi, ma spiandoli con la contrita e disperata consapevolezza di un traguardo inavvicinabile.

Ma Nella casa, pur nella sua fondamentale malinconia, è anche un oggetto che vive della propria (auto)referenzialità, che si destreggia spiritosamente fra i propri riferimenti fino ad esplicitarli e a materializzarli sulla scena, dal bildungsroman (I turbamenti del giovane Törless) al teatro pirandelliano, dal già citato Pasolini (menzionato nei dialoghi) ai romanzetti rosa di Barbara Cartland, fino al discorso sul caso dell’Allen più recente (Germain e la moglie vanno a vedere al cinema proprio Match Point), riportando sulla scena tutti i canoni del mondo ozoniano, fra infiltrazioni queer e feticismi, fra efebismo e bellezze sfiorite (qui le mature Emmanuelle Seigner e Kristin Scott Thomas), con la lucidità – e, a tratti, la furbizia – di un cinema fortemente codificato e avvinto su se stesso, a volte intrappolato dall’accademismo e dall’effettismo di certe scelte registiche (l’ingresso fisico di Germain nelle scene descritte da Claude). Pur nel suo chiaro apparato intellettuale, si tratta di un’opera che si autofagocita, che vive principalmente di se stessa e dei propri rimandi citazionistici, dagli immancabili Hitchcock e Chabrol ai più diretti riferimenti a Diario di uno scandalo (l’ambito liceale e la scena finale), di cui pare quasi una parodia, o a Niente da nascondere (il lato tragico e interclassista del voyeurismo).

Ciò nonostante, questo film resta un momento decisivo, ancorché interlocutorio, della produzione di François Ozon, la riflessione matura ed equilibrata di un cineasta trovatosi di fronte all’incedere del tempo e alla necessità di rinvigorire la propria visione delle cose, mostrando ancora una volta il lato più sensibile di sé e del proprio mestiere, non più ripugnato dal contatto con l’altro, ma, al contrario, affascinato da tutto ciò che può arrivare.

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