Qualcuno da amareTokyo, un locale notturno affollato, giovani che bevono, fumano, parlano del più e del meno. Sovrastando il chiacchiericcio, ci giunge una voce fuori campo: è di una ragazza al telefono, cerca di scrollarsi di dosso l’interlocutore, che vuol sapere dov’è, cosa fa, la incalza con richieste assurde. L’obiettivo non ci mostra la ragazza, ma piuttosto una sua amica, che è seduta a un tavolino parlando con qualcuno che però non vediamo.

Inizia così, con un lungo piano-sequenza, l’ultima opera del maestro iraniano Abbas Kiarostami. Spiazzando tutti, gira un film… giapponese! Ma come si permette? Da un cineasta come lui ci si aspetta un film sull’Iran, magari sull’oppressione della donna in quei luoghi, così da poter levare i nostri scudi di Candide benpensanti. E invece no, Kiarostami antepone a qualsiasi aspettativa o luogo comune l’urgenza dell’arte: la sua personalissima idea di cinema, che coincide con la vita, si riflette nel gioiellino in uscita nelle sale italiane dopo la presentazione ‘ufficiale’ a Cannes 2012.

Qualcuno da amare è realizzato secondo i dettami del naturalismo prediletto dal cineasta iraniano: in conferenza stampa, dopo aver ricordato il proprio amore per il neorealismo italiano, nonché il proprio debito verso alcuni grandi del cinema nipponico (Ozu e Mizoguchi), ha dichiarato che “Recitare, non va bene per il mio cinema”. È, infatti, straordinario il lavoro sugli attori, dal casting alle indicazioni di sceneggiatura (ai malcapitati viene consegnato solo il copione del giorno di lavorazione, affinché non restino condizionati dal sapere come va a finire la storia e possano agire in piena naturalezza davanti alla macchina da presa) fino alla direzione in scena: tutto ciò perché la vita possa riflettersi nel film.

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L’inquieta ricerca di cui si nutre il cinema di Kiarostami lo porta a girare talvolta in modo volutamente sgrammaticato, con inquadrature ‘sbagliate’ (pali della luce che coprono il soggetto e simili), altre volte, invece, a giocare con la tecnica, come nella sequenza in cui la ragazza e l’anziano professore vanno e vengono dalla stanza da letto, la cui porta viene inquadrata a fianco di uno specchio rivolto verso il soggiorno, simulando l’effetto split screen. Oltre al ricorrente utilizzo della voce fuori campo e dei fitti dialoghi attraverso il telefono (che sia il cellulare delle ragazze o il fisso del professore, con le rispettive segreterie telefoniche sempre in funzione), un altro topos preferito del nostro regista è l’abitacolo di un’autovettura quale centro dell’azione… se in «Dieci» questa scelta era funzionale al racconto paradossale della vita quotidiana a Teheran, in «Qualcuno da amare» risponde all’esigenza di far scaturire un dialogo altrimenti impossibile tra due generazioni così diverse, tra la venticinquenne Akiko e l’ottantenne Takashi.

L’intreccio del film, minimale all’apparenza, in realtà si presta a diversi livelli di lettura: è una perfetta storia giapponese, ma è anche un apologo morale sulle solitudini. E certamente Kiarostami mira all’universale – alla peraltro bizzarra domanda sul perché non avesse pensato di chiedere la cittadinanza francese, ha risposto di sentirsi cittadino di ogni luogo in cui si trova. Così come, affrontando con calma olimpica le domande più varie (ad esempio, sul rapporto Islam/Occidente), Kiarostami ha saggiamente osservato che “la distanza ci fa credere di essere molto diversi gli uni dagli altri, ma non è così: al contrario, siamo molto simili…”.

E, a proposito dello stato del cinema in Iran, è bensì vero che «Qualcuno da amare» non ha avuto il visto della censura pur circolando ampiamente nel mercato nero dell’homevideo, come avviene per la maggior parte della produzione indipendente o straniera, ma c’è comunque tanta creatività anche se può essere soffocata, o avere difficoltà ad esprimersi. Il regista ha anche osservato come il pubblico in Europa e in USA inizi ad allontanarsi dai modelli hollywoodiani per avvicinarsi al cinema d’autore, mentre in Paesi emergenti come la Cina accade l’inverso (ne è prova, ci sembra, il recente successo di un film come «Una separazione»).

Non sappiamo se questo prezioso film avrà un analogo riscontro in Occidente, ma una cosa è certa: Abbas Kiarostami conferma di essere uno dei grandi maestri della settima arte, dando prova anche nell’incontro con la stampa del suo straordinario carisma.

Abbas Kiarostami_San Francisco Film Festival

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