Slow Food Story_locandina“Bisogna lottare contro l’omologazione del gusto e dei saperi, contro la pornografia alimentare, ma non dobbiamo perdere di vista l’orizzonte del piacere”. Questo il Carlo (anzi Carlìn) Petrini-pensiero, espresso in una intensa conferenza stampa a margine dell’anteprima di Slow Food Story, brillante documentario di Stefano Sardo da Bra, classe 1972, sulla nascita e l’attuale realtà del movimento per un cibo migliore e più giusto promosso nei seminali anni Settanta dallo stesso Petrini con un manipolo di sodali, tra i quali Azio Citi e Giovanni Ravinale.

La storia inizia dalle sagre di paese che caratterizzano le Langhe piemontesi, come tante altre zone a vocazione agricola; i ’70, per l’appunto, vedono il protagonismo di masse giovanili in tutti gli ambiti della società. Quando cominciano ad arrivare anche a Bra capelloni spinellanti a bordo di Renault 4 e Diane sgangherate, osterie e trattorie del posto escono dal loro secolare anonimato e vengono celebrate come luoghi della cucina popolare, in grado di offrire una ristorazione povera – ovvero, semplice e genuina – ma buonissima.

C’è in quelle terre un nucleo di attivisti che, oltre a fare politica come si usava a quei tempi, ama il buon cibo e il buon vivere: nel materiale di repertorio utilizzato per raccontare le origini si vedono infatti Petrini & C. in compagnia di un altro noto gozzovigliante di sinistra, Francesco Guccini, insieme sul palco del Club Tenco, impareggiabile fucina di intelligenze e personalità prorompenti dove si mescolano cultura, voglia di divertirsi, sperimentazione.

Come osservato da Lella Costa nell’incontro con la stampa da lei moderato, l’ironia – “una dichiarazione di dignità dell’essere umano rispetto a ciò che gli capita”, Romain Gary – è il motore di ciò che sta per nascere a Bra, dove la minoranza ironicamente eversiva che si raccoglie intorno a Carlo Petrini dà vita all’ArciGola, una sezione dell’Arci dedicata alla gastronomia.

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È, questa, è una rottura con la palude nella quale si sono impantanati i sogni e le speranze dei movimenti degli anni ’70: in una sinistra ingessata e incapace di individuare i nuovi soggetti sociali da cui ripartire dopo il grande riflusso, irrompe la fantasia e la creatività di Petrini, che dà dignità ad inconfessabili piaceri borghesi. Divertente e significativo l’aneddoto raccontato dall’ideatore de Il Gambero Rosso sui lettori “di destra” che compravano il quotidiano il manifesto (del quale il primo era inizialmente un mero inserto) solo per leggere i fogli dedicati all’arte culinaria, trattenendo l’inserto e gettando il quotidiano, mentre lettori “di sinistra” facevano l’operazione inversa, interpretando la novità come cedimento rispetto al rigore di stampo berlingueriano.

La seconda svolta nella vicenda narrata da Stefano Sardo è a fine anni ’80, quando sbarcano anche in Italia i panini di MacDonald: Petrini lancia a Parigi SlowFood, un movimento internazionale di resistenza alla incultura del fast-food e basato sull’affermazione del principio che non ha senso mangiare tutti lo stesso cibo, solo perché così vuole l’industria agroalimentare. Invece, tutte le gastronomie sparse nel mondo sono buone (o cattive) allo stesso modo; ogni Paese ha diritto ad avere la propria agricoltura e la propria cucina. Con grande efficacia, Petrini fa comprendere l’assurdità del modello “big mac” con l’esempio del peperone quadrato piemontese, una specialità che i contadini delle Langhe avevano smesso di produrre perché non più redditizia per sostituirla con peperoni… olandesi. Ma non è finita qui: Carlìn riferisce di aver chiesto a quei contadini cosa coltivassero ora, sentendosi rispondere “bulbi di tulipano”!

L’ultima fase – per ora – del movimento creato da Petrini senza mai lasciare Bra, la sua cittadina di 27mila abitanti, è Terra Madre, forum di portata mondiale, con cinquemila delegati da 130 paesi (in pratica, l’intero pianeta), piccoli produttori agroalimentari che si scambiano saperi antichi dando una formidabile dimostrazione di quanto sia insensato chiedere alla terra sempre di più, martoriandola con coltivazioni intensive e monocolture. Anche perché è tutto collegato: l’agricoltura assorbe il 76% dell’acqua, che prima o poi finirà. Così come prima o poi finiranno i contadini: più della metà di loro ha più di 50 anni; si registra qualche segnale di ricambio generazionale, con un ritorno alla terra da parte di alcuni giovani, ma non basta: occorre investire nella formazione, servono nuovi paradigmi, invertire la follia della crescita a tutti i costi (nel film viene intervistato, tra gli altri, anche Serge Latouche, l’economista francese teorico della “decrescita felice”).

Slow Food_Carlin Petrini

Persino in America si stanno iniziando a capire i guasti dell’alimentazione drogata, vista la pandemia dell’obesità che dilaga, con significative azioni dal basso di tutela della biodiversità.

Per cambiare rotta, dice Carlìn, è importantissima la cultura: per questo, all’Università di scienze gastronomiche fondata da Slow Food a Pollenzo, frazione di Bra, si insegna zootecnia ma anche antropologia. Nell’incontro con la stampa, Carlo Petrini, rispondendo ad una nostra domanda, si scatena puntando l’indice sulla miopia della classe politica, che non riesce a pensare alla gastronomia come un fenomeno complesso e che mette in mano l’agricoltura a ministri senza portafoglio (e, aggiungiamo noi, senza altre doti che l’essere graziose cortigiane…).

In sala durante la proiezione si era levato un brusio di malcontento nel vedere sullo schermo l’ex ministro Alemanno fare bella figura come difensore del cibo genuino e – soprattutto – italico; alle perplessità ha risposto Stefano Sardo, osservando come Slow Food ha avuto successo anche perché ha saputo mediare, trovare alleanze, portare gli interlocutori dalla propria parte.

Resta il fatto che l’ingiustizia domina nel mondo del cibo: l’ottanta per cento delle sementi di tutto il mondo sono in mano a poche multinazionali, l’Africa è flagellata dal cosidetto land grabbing (la sottrazione di terre ai contadini da parte dei colossi dell’agroalimentare), i suoi coltivatori sono costretti a venire da noi e a raccogliere i nostri pomodori in condizioni di quasi schiavitù.
Per questo, le alleanze più belle e importanti sono quelle costruite dal basso, con gli esponenti migliori della società civile mondiale, che Petrini battezza brillantemente come protagonisti di una “gastronomia della liberazione”: è l’esempio di grandi chef come Gaston Acuyo e Alex Atalà, che aprono scuole di cucina nelle bidonville di Lima e lavorano con gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana per proteggere le sementi.

Occorrono poi intese ai massimi livelli istituzionali: in questi giorni è prevista la firma di un accordo di collaborazione tra Slow Food e la FAO – il cui direttore non a caso è il brasiliano Graziano Da Silva, già direttore del programma “Fame zero” – basato sul riscatto dei saperi contadini. Ciò per cercare di bloccare l’assurdo processo che ha fatto del cibo una commodity scambiabile sui mercati finanziari, trasformandola in merce priva del suo autentico valore. L’agricoltura industriale ha estromesso milioni di persone dalla terra, togliendo soprattutto alle donne il loro posto antico, in nome di un iperproduttivismo cieco, che ha portato ad una drammatica caduta della fertilità dei suoli, a causa anche del massiccio impiego della chimica – negli ultimi vent’anni sono stati utilizzati più prodotti chimici dei precedenti cento!
Occorre dunque promuovere la qualità del cibo e le coltivazioni biologiche, che pure non sono la panacea di tutti i mali (anche perché i costi sono superiori); sicuramente è più strategico privilegiare le produzioni locali, come dimostra un altro dei tanti esempi citati da Petrini, quello delle pere bio ma argentine…

Carlo Petrini chiude con uno spassoso aneddoto: qualche anno fa era in visita ad una comunità agricola in Etiopia e, vista la sua notorietà, era accompagnato dall’ambasciatore italiano dell’epoca. Questi guardava tra il disgustato e il terrorizzato i pentoloni messi a bollire sulle braci, e implorava Petrini di non toccare nulla; Carlìn invece, attratto dagli inebrianti odori della cucina locale, aveva assaggiato ogni pietanza con grande soddisfazione sua e delle donne delle villaggio etiopico!

Slow Food Story si basa su un notevole sforzo produttivo e distributivo, come raccontato da un appassionato Nicola Giuliano per Indigo Film, in collaborazione tra gli altri con l’Irish Film Board: il documentario, già preacquistato da diversi altri Paesi nonché dalla nostrana Raitre con Doc3, vuole essere un contributo per tenere viva la memoria in Italia.
Coerentemente, alla proiezione-stampa ha fatto seguito un “Aperitivo-Slow”, curato da Slow Food Lazio e Mercato della Terra di Mentana.

Buon cibo a tutti!

Slow Food Story
Slow Food Story - Carlin Petrini e i suoi compagni d'avventura

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