Holy Motors“On dit que la beauté est dans l’oeil, dans l’oeil de celui qui regarde”.

“Alors si personne ne regarde plus?”

Sono silhouettes di spettatori anestetizzati, profili immobili davanti a uno schermo, volti senza occhi ad accoglierci nella gigantesca allegoria di Holy Motors, ritorno al lungometraggio del parigino Leos Carax dopo oltre un decennio di auto-esilio, un letargo arido e tormentato di cui vediamo il risveglio durante il prologo, con l’incanutito e ancora frastornato regista a evadere dalla sua stanza-prigione dopo averne squinternato la (quarta?) parete, solo per capitare nella galleria deserta di un cinema che pare l’evoluzione fantasmatica e spenta del pubblico festante dell’inquadratura conclusiva de La folla di King Vidor.

Carax si rimette dietro la macchina da presa dopo il disastroso esperimento di Pola X, fallimentare adattamento melvilliano che interruppe bruscamente la capricciosa ascesa di questo enfant terrible del neo romanticismo francese che aveva incuriosito le platee festivaliere con il precoce esordio post-Nouvelle Vague di Boy Meets Girl: nel frattempo, la fruizione dell’oggetto film è profondamente mutata, con l’affermazione del supporto digitale e il ridimensionamento progressivo dell’elemento umano nella creazione cinematografica, con l’estinzione della sala come centro di aggregazione socio-culturale e l’avvento delle piattaforme video globali, con le infinite morti e con le resurrezioni annunciate cui la settima arte è passata attraverso.

Holy Motors, già prima di cominciare, si prefigura come la preghiera smisurata e arrabbiata di un artista che ritrova il proprio mondo di appartenenza modificato e condizionato, nel bene e nel male, da cambiamenti irreversibili e traumatici, di un cineasta che non riconosce più il formato, il linguaggio e le regole della propria disciplina, di un idealista disperato che, rigettando le norme del mercato, ha preferito correre il rischio della coerenza creativa, con tutte le derive autoreferenziali e malinconiche del caso: alter ego di Carax è il proteiforme Oscar, presentatoci inizialmente come granitico banchiere e successivamente, mediante trucchi di scena e costumi reperibili nella sua limousine-camerino, mendicante, ripugnante creatura primitiva, sicario assoldato per eliminare un suo doppio, anziano morente uscito dalla penna di Henry James e via discorrendo.

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Oscar è un attore, o se non altro la sua deformazione metaforico-pirandelliana costretta a rinunciare al palcoscenico e al set per svolgere il suo mestiere nella vita reale, un uomo che ha perduto la sua centralità e la sua identità antropologica e performativa, che non recita ma interpreta, meccanicamente, progetti finzionali tramutatisi in autentici “appuntamenti” programmati con la stessa attitudine di una serie di incontri di affari.

Gli “appuntamenti” di Oscar in giro per Parigi, scarrozzato dalla materna autista Céline (l’ingrigita, ma ancor più bella Edith Scob di Occhi senza volto, di cui ritorna l’iconica maschera nel finale), oltre a rispecchiare autobiograficamente stralci di iniziative abortite, sognate o incomplete (il monsieur Merde del terzo travestimento proviene dalla partecipazione su commissione di Carax alla pellicola collettiva Tokyo!), finiscono per assomigliare alle parodie di un intero genere (dal monster movie – con tanto di colonna sonora di Godzilla in sottofondo – al film di gangster, dal melodramma – che cita apertamente Ritratto di signora – al musical sinfonico), di cui Carax si serve semioticamente per raccontare un mondo inguaribilmente confuso fra realtà e finzione, schiavizzato dalla propria virtualità, segnato dall’indifferenza di chi guarda e dalla mutevolezza di chi agisce: a differenza del coevo e soltanto superficialmente affine Cosmopolis, quella di Carax è una società dove la crisi è già arrivata da tempo, dove il malessere dell’individuo si identifica con il malessere universale e vi si ripercuote fino a corrispondervi, non dissimilmente dai casi di Kantoku Banzai! di Kitano e di Synecdoche, New York di Kaufman.

Holy_Motors_posterCosì, Holy Motors si rivela paradossalmente come un corpo al medesimo tempo pulsante e putrescente, coeso eppure sconnesso, una coerente raccolta di frammenti dove la “beltà del gesto” e del movimento, che è in fin dei conti l’origine stessa del cinema, come suggeriscono le estemporanee citazioni del lavoro di Etienne-Jules Marey, si dimena angosciosamente in un’atmosfera dove tutto è o sembra morto: in questo Carax è aiutato dalla fisicità debordante della sua fedele, stupefacente marionetta Denis Lavant che, nonostante il mezzo secolo di vita, non è poi molto diverso dall’acrobata scapigliato dell’ottimo Rosso sangue (indimenticabile la sua furiosissima corsa al ritmo di Modern Love di David Bowie) e che oggi ricorda una versione perversa del vagabondo chapliniano – specie nei panni di Merde – o, anche meglio, del trasformismo selvaggio di Lon Chaney.

Certo, il valore pesantemente testamentario del film e la sua incessante valenza simbolica non fanno sempre centrare il bersaglio e alcune allusioni suonano un po’ ingenue, come il cimitero sulle cui lapidi gli indirizzi internet hanno sostituito gli epitaffi o la mostruosità deumanizzante della motion capture come equivalente contemporaneo della catena di montaggio di Tempi moderni, e la pretenziosità dell’assunto può davvero indisporre; ma l’irruento, gonfio zibaldone che è Holy Motors, nel suo caos enciclopedico dove convivono divette del pop e pruriti godardiani, improvvise accelerazioni, come l’entracte musicale in chiesa, trascinante non sequitur in piano sequenza con cui Carax mostra il suo Oscar finalmente al naturale, e digressioni meditabonde, come il memorabile episodio con Kylie Minogue fra le balaustre art deco abbandonate della Samaritaine, è costantemente bilanciato da una notevole, salvifica autoironia, che culmina in una conversazione fra limousine parcheggiate che riporta alla mente le animazioni del Monty Python’s Flying Circus, e dal coraggio di una messinscena che forse avrà attenuato le iperboli degli esordi (il fido direttore della fotografia Jean-Yves Escoffier, riciclatosi a Hollywood, è deceduto nel 2003), ma che è riuscita col tempo e con l’esperienza a trovare l’equilibrio giusto fra forma e contenuto.

Accolto trionfalmente – giuria esclusa – al penultimo Festival di Cannes e giunto in Italia solo a ridosso dell’ultima edizione, Holy Motors è insomma un film destinato a dividere e nel quale i pregi si mescolano e spesso coincidono con i difetti, una visione sofferta ed esasperante che, amata e odiata al contempo, ci restituisce una prospettiva sul cinema autenticamente spiazzante e un autore dato per disperso a cui resta comunque molto altro da dire.

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