A vederlo, confinato alla periferia d’Europa ed eclissato dalla concorrenza feroce di Berlino e di Cannes, non si direbbe, eppure il Festival Cinematografico Internazionale di Mosca è la seconda rassegna dedicata alla Settima Arte più antica del mondo, inaugurata appena tre anni dopo la Mostra di Venezia ma evolutasi in appuntamento biennale e competitivo soltanto nel 1959 con l’intervento del futuro Ministro Sovietico della Cultura Yekaterina Alexeyevna Furtseva.
E’ proprio dalla capitale russa che prese il via la fortuna internazionale, ben prima degli Oscar del 1964 e dopo il passaggio fuori concorso a Cannes, del felliniano 8½, trionfatore incontrastato della terza edizione, seguito di lì a poco da altre pellicole di grande caratura internazionale come Natascia – L’incendio di Mosca di Sergej Bondarchuk o Il padre di Istvan Szabo, senza dimenticare le vittorie nostrane di Serafino e di Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica, fino all’apoteosi del 1975, quando furono premiate ex aequo tre irripetibili pietre miliari come Dersu Uzala di Kurosawa, C’eravamo tanto amati di Scola e La terra della grande promessa di Wajda.
Successivamente, il prestigio della manifestazione sembrò andare scemando, fra sparuti vincitori di rilievo, come Il cineamatore di Kieslowski e Va’ e vedi di Klimov, e titoli caduti presto nel dimenticatoio. Assunta cadenza annuale nel 1999, il Moskovskij Mezhdunarodnyj Kinofestival’ finì nello stesso anno sotto l’egida del direttore artistico Kirill Razlogov e, soprattutto, del regista Nikita Mikhalkov, che ne è tutt’oggi dispotico, quasi autocratico presidente, una personalità resa pressoché onnipotente dalle sue marcate simpatie filogovernative, che hanno innegabilmente gettato un’ombra sulla credibilità della rassegna.
Protagonisti del galà d’apertura di domani saranno l’annunciatissimo World War Z (uscita italiana: 27 giugno) e il suo interprete principale Brad Pitt, mentre per il concorso ufficiale si dovranno necessariamente ridimensionare gli entusiasmi in fatto di glamour: fra i partecipanti spiccano tuttavia lo scozzese Delight, scabroso melodramma erotico diretto dall’emergente Gareth Jones e interpretato dalla radiosa Jeanne Balibar; il russo Iuda, nuova trasposizione delle vicende evangeliche viste questa volta dagli occhi dell’Iscariota; la commedia rurale olandese Matterhorn, già insignita del Premio del Pubblico al precedente Festival di Rotterdam; la reminiscenza post-dittatura del brasiliano A memoria que me contam, che vede dietro la macchina da presa la veterana Lúcia Murat (suo il premiatissimo Quase dois irmãos) e la partecipazione del nostro Franco Nero.
Sarà presente anche la nuova promessa del cinema turco Erdem Tepegöz, con il suo laconico Zerre premiato al Festival di Antalya; la favola borgatara di Spaghetti story, che vede alla regia l’esordiente Ciro de Caro, unico concorrente italiano della compagine; il minuscolo romanzo di formazione Los chicos del puerto, che riporta a Mosca lo spagnolo Alberto Morais dopo la vittoria nel 2011 con il precedente Las olas; l’avanguardistico e tarkovskyano Rol’ dell’ucraino Konstantin Lopushansky, già segnalatosi a Berlino negli anni novanta con Sinfonia russa.
Come di consueto, nel mare di retrospettive e di approfondimenti, fra cui una ricca personale su Bertolucci, l’opera omnia della giurata Ursula Meier e un sentito omaggio al cineasta locale Alexey Balabanov, deceduto prematuramente lo scorso mese, si segnalano le anteprime di alcuni fra gli ospiti più celebrati della Croisette e del Palast, a cominciare da Paradies: Hoffnung, capitolo conclusivo della trilogia teologale di Ulrich Seidl, e Nugu-ui Ddal-do Anin Haewon, applauditissima nuova fatica del coreano Hong Sang-soo (da noi nelle sale il prossimo 22 agosto con l’antecedente In Another Country), entrambi visti a Berlino, passando per il vincitore di Un Certain Regard L’image manquante del cambogiano Rithy Pahn e culminando con A Touch of Sin di Jia Zhangke e Heli di Amat Escalante, rispettivamente miglior sceneggiatura e miglior regia a Cannes 2013.
Spicca l’assenza dal programma della Palma d’Oro La via d’Adéle, ufficiosamente in fase di rimontaggio e di scrematura, ma più probabilmente boicottato dalla direzione del festival visto l’orientamento tutt’altro che gay-friendly del paese ospite e mette una certa tristezza che a far calare il sipario, più che un autentico film di chiusura, sarà una captatio benevolentiae nei confronti del neo-cittadino russo Gerard Depardieu, il biopic Rasputin, coproduzione televisiva franco-georgiana datata 2011 (e passata fuggevolmente su RaiUno come Speciale di Superquark) che vede il corpulento divo d’esportazione ormai sessantatreenne calarsi poco credibilmente nel ruolo del carismatico (e filiforme) monaco siberiano morto a 46 anni, affiancato dall’altrettanto improbabile Fanny Ardant (nata 1949) nei panni della trentatreenne zarina Aleksandra Romanova.
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