Silent OnesCome ogni mostra del cinema che si rispetti, anche il Festival di Mosca prende il via con uno sgradito inconveniente tecnico e con ripensamenti dell’ultimo minuto capaci di accattivarsi immediatamente la benevolenza dei membri della stampa: al posto della pellicola vincitrice del Premio per la Miglior Sceneggiatura a Cannes 2013 è infatti finito in cabina di proiezione il film di apertura della vetrina dedicata al Nuovo Cinema Olandese, previsto inizialmente nel primo pomeriggio e ricevuto con ridimensionata curiosità, se non con stizza, dalle frotte di corrispondenti svegliatisi appositamente di primissima mattina per non perdere l’appuntamento con l’ultima, celebrata fatica di Jia Zhangke.

Non tutti i mali vengono per nuocere, tuttavia, perché l’esordio nel lungometraggio della giovane Ricky Rijneke, il breve Silent Ones – già passato con successo per il Festival del Cinema Europeo di Lecce – è un titolo di tutto rispetto misteriosamente escluso dal concorso: lo spunto di per sé – le miserie quotidiane e la vita di espedienti di una giovane ragazza ungherese devastata dalla perdita del fratello minore – non è nulla di imprescindibile o di particolarmente inedito, ma è la scelta di mettere in scena la routine, il vacuo e il dramma rigettando la progressione drammatica convenzionale e adottando un flusso narrativo più libero ed astratto, fatto di allusioni e di lacune, a rivelarsi vincente, con un uso preponderante della voce off, una cura notevole nella cattura dei paesaggi naturali e sottili sfumature panteistiche che non possono non far pensare alle recenti evoluzioni del cinema di Terrence Malick.

Silent Ones è una storia di fantasmi senza fantasmi nella quale i personaggi, tanto nelle grigissime campagne semiabbandonate quanto sulle autostrade per l’Occidente quanto su lentissime, carontesche navi merci, si muovono come sperduti in un limbo senza via di uscita.

A seguire, per il medesimo ciclo nonostante una produzione principalmente statunitense, arriva il thriller Dark Blood, l’ultima interpretazione di River Phoenix: a vent’anni dall’interruzione delle riprese causata dalla prematura scomparsa del giovane attore in ascesa, il regista George Sluizer, la cui fortuna in terra americana cominciò con la trionfale accoglienza internazionale del suo notevole Il mistero della donna scomparsa, rimette mano al film e ne colma gli insanabili vuoti con l’uso sporadico della voce narrante per descrivere le scene mancanti e con raccordi di montaggio raffazzonati alla bell’e meglio per legare insieme il racconto. L’intenzione, lodevole, di non tenere nascoste le ultime scintille del divo di Belli e dannati è però ridimensionata dal valore non eccelso del progetto in sé, che si limita a ripetere pigramente la formula del piccolo succitato classico del 1988 – il viaggio in auto di una coppia complicato da una seducente impersonificazione del Male – e a dare per scontata un’alchimia fra gli interpreti che in realtà non c’è: se Jonathan Pryce è sempre e comunque a suo agio nel ruolo del borghese frustrato (e spesso cornuto), è difficile accettare la nevrotica e alleniana Judy Davis come oggetto della fascinazione e del desiderio del giovane Phoenix, che qui, mal diretto, non riesce a dare vita ad esprimere le potenzialità davvero inquietanti e morbose del suo villain. Forse sarebbe stato meglio lasciare le cose com’erano.

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Finalmente, dopo una mattinata di mugugni, è il turno di A Touch of Sin, uno dei ricordi più vividi dell’ultimo Festival di Cannes: confermando e, anzi, esasperando, i pareri entusiasti del mese scorso, il ritorno alla regia di Jia Zhangke spiazza e travolge, regalandoci quello che è a tutt’oggi non tanto il migliore, quanto il più accessibile titolo della sua aurea filmografia. Più che al tanto strombazzato filone pulp e agli allegri massacri di Tarantino, le quattro piccole, patetiche e atroci storie di ordinaria sopraffazione e rivalsa rimandano al cosmo suburbano e tremendamente sociale del nostro Gomorra, con un’idea di violenza che agisce non diversamente da un morbo contagioso e incurabile – sullo sfondo, si parla anche di HIV e di vaccini – a cui una società subissata dalla corruzione etica ed economica ha finito per assuefarsi. Zhangke, ancora una volta, osa molto: dopo i contrappunti animati o musicali di The World e gli inserti fantascientifici di Still Life, qui opta per una raffigurazione diretta ed esplicita delle scene più cruente, al punto da rischiare qualche sbavatura e da abbandonare il tono placido e surreale delle sue opere precedenti, ma il risultato è un affresco devastante della condizione umana trascinata dalle passioni e il rinnovamento genuino e provvidenziale di una poetica e di una stilistica ancora riconoscibilissime (a partire dalle solite, bellissime panoramiche circolari).

Heli
Heli

Dalla Croisette giunge anche il messicano Heli, premiato a sorpresa con il riconoscimento per la Migliore Regia: la storia di insostenibile sopraffazione di una famiglia proletaria messicana messa in scena dal trentaquattrenne Amat Escalante si inserisce nel solco segnato dal conterraneo Carlos Reygadas (qui, non a caso, coproduttore) di Post Tenebras Lux, e in misura ancora maggiore dall’assai affine Kinatay del filippino Brillante Mendoza, che si aggiudicò il medesimo premio a Cannes nel 2009 e che, curiosa combinazione, anch’esso aveva come fulcro un secondo atto a base di torture efferatissime e l’analisi del confine labilissimo fra legalità e delinquenza. Escalante non risparmia nulla allo spettatore, a cominciare da una storia d’amore in odor di pedofilia fra un cadetto della polizia e la sorella dodicenne del protagonista e passando per supplizi indicibili a base di pagaiate e di genitali dati alle fiamme, illustrando con una freddezza degna del Bruno Dumont de L’età inquieta un microcosmo piccolo e privato dove l’unico linguaggio è quello del sangue e l’unica legge è quella del più forte. A tratti davvero terrorizzante nella sua cronaca rigida e disperata, Heli conferma lo stato di grazia del Nuevo Cine Mexicano, per la seconda volta consecutiva incluso nel Palmares cannense, ma allo stesso tempo getta una piccola ombra sulla sua effettiva versatilità che solo il tempo e la fortuna potranno provvedere a sfumare.

La giornata si conclude con un turbolento, repentino cambio di sala non previsto dal programma e con l’evento mondano della preapertura, la presentazione in pompa magna di World War Z.
Il progetto, vittima di fasi di scrittura e di riprese più volte interrotte, rappresenta inevitabilmente l’intenzione di rendere più politicamente corretto il soggetto originale, rinunciando ai pesanti, caratterizzanti riferimenti sociopolitici del romanzo di provenienza. Nelle mani di Marc Forster, autore dello 007 più loffio che la Storia ricordi, il film si trasforma in un horror fondamentalmente innocuo (probabilmente per non incorrere in un debilitante divieto ai minori), in un tradizionale, discretamente godibile spettacolone estivo al servizio della star e del pubblico.

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