Mentre i cinefili di mezzo mondo accolgono con sgomento la notizia dell’improvvisa, assurda scomparsa di James Gandolfini, il Festival Cinematografico Internazionale di Mosca avvia il concorso dopo gli assi cannensi calati in preapertura e l’inaugurazione della vetrina sul Nuovo Cinema Olandese: primo fra i sedici titoli sottoposti al giudizio della giuria presieduta da Mohsen Makhmalbaf è il francese L’autre vie de Richard Kemp, sobrio e gradevole polar dalle marcate venature fantastiche che mescola e cita vent’anni di canoni cinematografici sulla seconda occasione e sui viaggi nel tempo che vanno da L’esercito delle dodici scimmie (evocato nel prefinale) a Frequency e al più recente Looper, seguendo le disavventure di un detective di mezza età di stanza a La Rochelle ritrovatosi casualmente alla fine degli anni ottanta, quando il fallimento dell’operazione contro un serial killer locale compromise definitivamente la sua carriera.
L’ingrigito poliziotto avrà modo di riparare alle mancanze del passato e di cambiare la Storia, ma la sua capacità di anticipare i delitti finirà per metterlo contro il suo peggiore nemico, nientemeno che il suo giovane sé. E’ pur vero che l’esordiente regista Germinal Alvarez osa poco, segue scolasticamente tutti i crismi del genere e si limita a rifugiarsi in una regia dal taglio prettamente para-televisivo, ma trova l’equilibrio del suo piccolo, onesto thriller di provincia proprio nella semplicità del suo assunto e nella forza dei suoi personaggi, senza impelagarsi nella palude dei paradossi temporali e degli spiegoni parascientifici, e sorretto dalla performance maiuscola e inquieta di un ruvido Jean-Hugues Anglade, credibilissimo anche in versione ringiovanita.
Peccato che la successiva opera della competizione, il gallese Delight, ridimensioni considerevolmente gli entusiasmi e ci catapulti nella declinazione più rancida e ombelicale del cinema d’autore: secondo capitolo di una trilogia sulla forza della libido nella sfera artistico-antropologica, il film parte come un’allegoria gotica con tanto di manifestazioni fantasmatiche e incubi ricorrenti per riflettere, fra le varie cose, sul ruolo dell’arte e della cronaca nella crudeltà della guerra, sulla capacità espiativa e lenitiva dell’eros e sulla ambigua necessità della rappresentazione, ma, forse anche a causa degli elementi autobiografici, come il corrispondente di guerra suicida – vero protagonista in absentia della pellicola – modellato sul profilo del padre di Jones o la scelta di ambientare la vicenda nel proprio villaggio di origine, Delight è vittima di un dilettantismo registico impressionante e pare l’esperimento naif e abbozzato di un individuo totalmente a digiuno di cinema, falcidiato da un’ingombrante impostazione teatrale (retaggio degli esordi di Jones), da dialoghi sentenziosi, da una progressione drammatica inesistente e da una direzione degli attori a dir poco imbarazzante, di cui fa le spese la altrimenti eccezionale Jeanne Balibar – attrice amatissima da Rivette – che qui, fra occhioni sgranati, smorfie, urla e pose da femme fatale, si mantiene per tutti i 100 interminabili minuti della pellicola costantemente e fastidiosamente sopra le righe. Insomma, un autentico disastro.
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And Who Taught You to Drive? apre la sezione riservata ai documentari con una divertente, metonimica lezione sul superamento dei pregiudizi, prendendo in esame, con una certa dose di originalità, tre diverse storie di emigrazione costrette a scontrarsi con gli assai diversi codici stradali dei loro paesi di destinazione, dalla fashion designer tedesca arrivata in India per seguire la propria vocazione artistica al giovane insegnante americano perso nella burocrazia e nell’atmosfera kafkiana delle convenzioni del Giappone, arrivando alla studentessa coreana arrivata in Germania e costretta a destreggiarsi fra il turbolento, quasi cannibale traffico bavarese e i piccoli drammi domestici. Il tono è scanzonato e a tratti furbesco, ma ci si lascia coinvolgere facilmente dalla simpatia e dalla facile metafora di un culture clash cui, con l’avvento della civiltà globale, si può sempre andare incontro con entusiasmo e armati principalmente di tanta voglia di imparare.
Infine, L’étoile du jour, ospite speciale della giornata e vecchia conoscenza dello scorso Festival di Torino, è un melodramma circense che rende sottilmente omaggio al cinema degli albori (si pensi, naturalmente, a Il circo di Chaplin o, data l’ambientazione, a Lo sconosciuto di Browning) e che riesce ad essere più autenticamente méliesiano del vero Mélies dello scorsesiano Hugo. Il cast è un concentrato di elementi cult che partono dal magnifico Denis Lavant (Holy Motors), alter ego di fiducia di Leos Carax qui nei panni – questa volta espliciti – del Clown Triste, passano per le ex-“cattive ragazze” Natacha Régnier (La vita sognata degli angeli) e Beatrice Dalle (La visione del sabba), e culminano con Sua Maestà Iggy Pop come personificazione della coscienza del protagonista. Sano antidoto alla iconoclastia pop di pattume come il recente Ballata dell’odio e dell’amore di De la Iglesia, la seconda fatica di Sophie Blondy ridona al mondo del circo la sua naturale, nobile malinconia e conclude in bellezza, lontano dal chiasso del red carpet, la prima giornata ufficiale di proiezioni.
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