E’ all’insospettabile Festival di Mosca che, un semestre dopo il fortunato debutto al Sundance, lo straordinario ritratto d’artista Searching for Sugar Man mosse i primi passi verso la consacrazione internazionale, anticipando di altri sei mesi l’apoteosi incontrastata dell’ultima edizione degli Oscar. Oggi pare ancora più difficile individuare un degno erede al piccolo miracolo di Malik Bendjelloul se il resto della sezione non-fiction continuerà a proporre titoli di scarso interesse e di modestissima fattura come il russo Kholokost – Kley dlya Oboev, reportage del viaggio ad Auschwitz organizzato a sorpresa dal giornalista Mumin Shakirov per le gemelle ventenni Ksenya e Zhenya Karatygin, protagoniste della cronaca locale dopo aver dimostrato di fronte a milioni di telespettatori di non conoscere il significato della parola “olocausto”. Per quanto il caso possa facilmente fungere da polemica fotografia sulla realtà educativo-sociologica della Russia contemporanea, Shakirov sceglie la via dell’inchiesta di stampo prettamente televisivo, indulgendo peraltro in digressioni inutili (il parallelo viaggio della madre delle ragazze verso Mosca), ingredienti a dir poco superflui (le lamentose, insiste musiche di Akhmad Bakaev) e un tono generale così conciliante e da scoperta dell’acqua calda che non allontana granché il progetto – durata stiracchiata compresa, 56′ – da una qualsiasi trasmissione trash finto-divulgativa in stile The Learning Channel o da una puntata di The Simple Life con Paris Hilton, dando così l’idea, avallata dalle reazioni in conferenza stampa, che il regista non abbia la benché minima idea delle regole e dei modelli del documentarismo cinematografico.

Fortunatamente, ci pensa il successivo Iuda, finora titolo più valido del Concorso, a riportare la situazione alla normalità con uno sfoggio notevole di autentico cinema: adattamento dello scandaloso romanzo omonimo (1907) di Leonid Andreyev, la pellicola è un’affascinante, notevolissima riscrittura del mistero evangelico dal punto del vista dell’Iscariota, che qui, comune ladruncolo solo successivamente – e quasi per caso – inseritosi nella comitiva apostolica, assume i connotati di un antieroe tragico, quasi dostoevskiyano, un’anima indomita, rivoluzionaria e mossa da viscerale fede il cui tradimento finirà per essere un atto di coerenza e di amore ben più importante e decisivo della cieca accondiscenza dei suoi undici compagni di viaggio (“non ho forse, uccidendo un uomo, salvato Dio?”).

Il giovanissimo Bogatyrev (28 anni compiuti lo scorso gennaio) affronta brillantemente lo scomodo testo di partenza e sfida il clima di rinascita religiosa post-sovietica fortemente instauratosi nel Paese con un’opera dal notevolissimo impianto psicologico secondo la quale il Messia e il Traditore finiscono per diventare due facce della medesima medaglia e nella quale il Male, spesso, è l’unica, imprescindibile componente del conseguimento del Bene. La spettrale messa in scena quasi tardo-sokuroviana fa il paio con l’eccezionale, trascinante interpretazione del protagonista Aleksey Shevchenkov, che con la sua performance sul filo del nietzschiano (il suo Anticristo, dice, è stato il suo testo di riferimento per prepararsi al ruolo) ci consegna quello che è con tutta probabilità il Giuda più memorabile del grande schermo e si candida senza rivali al premio per il miglior attore.

Piuttosto scarso è invece il concorrente olandese, il breve Matterhorn (il nostro Monte Cervino), che con il suo tono blando e inoffensivo sembra invece aver conquistato il favore della critica moscovita: il severo, laconico calvinista vedovo Fred vede il proprio piccolo mondo di ligie consuetudini e di devozione sconvolto dall’arrivo in comunità del misterioso e apparentemente minorato vagabondo Théo, che lo farà progressivamente allontanare dalla vita austera e repressivamente perbenista che lo circonda per riavvicinarsi alle piccole gioie del quotidiano.

Il film tenta di bilanciare la gelida malinconia dello stile kaurismakiano con il tono assurdo e stralunato del cinema di Alex van Warmerdam (di cui vedremo e recensiremo il cannense Borgman martedì sera), ma il meccanismo da commedia autistica, dopo un avvio promettente e tutto giocato sull’allusione, si inceppa di lì a poco, limitandosi a ripetere soluzioni comiche basate sullo scontro degli opposti e su uno straniamento di volta in volta sempre più respingente, rivelando un impianto narrativo talmente fragile da rischiare l’evanescenza e l’aneddotismo.
Nella furbizia generale pronta per platee di bocca buona (il film vinse il premio del pubblico al Festival di Rotterdam), spicca solo la notevole, signorile performance del protagonista Ton Kas, impettito e distinto come il miglior Dirk Bogarde.

E’ tempo di cinema italiano indipendente e, purtroppo, si sente subito puzza di tinello: il nostrano Spaghetti Story – titolo di per sé incomprensibile se non ai soli fini di esportazione, visto che di spaghetti non se ne vede – è una cagionevole variazione sul tema della Sindrome  di Peter Pan, con protagonista una compagine di quasi trentenni che vive di modesti espedienti, fra audizioni, spaccio e borse di studio e che, complice il momento storico, affronta con pigrizia e noncuranza l’idea di crescere e di sistemarsi. Il contesto è quello borgataro e precario visto nel recente Alì ha gli occhi azzurri, ma lo spirito è quello della commedia giovanilista post-mucciniana, anche se tutto pare così rabberciato alla bell’e meglio, andamento episodico e virata drammatica nel pre-finale con riscatto dei protagonisti in primis, da allontanare il film dai binari del linguaggio filmico e avvicinare invece ad una brutta web-series, fra caratterizzazioni di terza mano (dalla prostituta cinese sommessa e timida al ruspante amico d’infanzia che ruba la scena, passando per la sorella diffidente e disciplinata che però si ravvede e alla fine si stempera), frequentissimi e fastidiosi tagli “interni” di montaggio come brutto espediente per vivacizzare il ritmo e rimediare alle carenze attoriali e una sciatteria generale mascherata da genuinità artigianale da far cadere le braccia. E alla fine non serve puntare il dito contro o addirittura usare come giustificazioni la povertà di mezzi, il budget ridottissimo, i ristretti periodi di riprese o le mille difficoltà del caso quando alla base sono già le idee e il mestiere a latitare.

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