Dopo il precedente statunitense di Dark Blood, un altro révenant del cinema degli anni novanta evade dal limbo produttivo e affronta, con il coraggio dell’anacronismo, la platea del Festival Cinematografico Internazionale di Mosca: questa volta è il turno del russo Voyna princessy, spaccato sulla criminalità infantile concepito dal regista Vladimir Alenikov nel 1993, cominciato a girare nel 1999 e completato con massicci interventi di post-produzione solo quest’anno. L’idea è quella di descrivere il teso e inconciliabile crogiolo multietnico formatosi nel Paese alla fine della Prima Guerra Cecena con il linguaggio del cinema di genere e un canovaccio alla West Side Story, con due bande rivali di adolescenti cresciuti troppo in fretta a contendersi il territorio del sobborgo moscovita di Rosrentgen, ma lo stile e il tono generale non sono all’altezza, con un’impostazione registica di annichilente tamarraggine che fra sparatorie a ralenti, squarci melò e parentesi musicali sogna Besson e Woo ma si arena nei territori più modesti dell’action bollywoodiano. Il cast pre-adolescente – fra cui si segnala Natalia Ionova, oggi celebre popstar locale conosciuta come Glukoza – è in gran parte indovinato e certe caratterizzazioni (la bombarola Granata, la mascolina Kat’ka, il vagabondo Rizhiy) sono indubbiamente simpatiche, ma il tutto resta immerso in uno sconfortante cattivo gusto e davvero non si sentiva il bisogno di un’ennesima variante del canone di Romeo e Giulietta.
Venendo al secondo film russo in concorso (sabato è stato il turno dell’ottimo Iuda), verrebbe quasi da pensare che, se i selezionatori della Mostra del Cinema di Venezia adottassero gli stessi criteri di quelli vigenti qui, allora il Leone d’Oro oltrepasserebbe raramente i confini nazionali, perché Rol’ di Konstantin Lopushansky è l’altro apice della selezione, un potentissimo apologo figlio della letteratura simbolista che si interroga sul senso di cosmica malinconia del mestiere dell’attore e sul confine impercettibile e sulla progressiva, metafisica confusione fra realtà e recita, con cenni al tema del doppio tanto caro al cinema espressionista. Rol’ è cinema colto nel senso più nobile del termine e a tratti sembra di assistere ad una singola variazione della questione identitaria di Holy Motors girata nel gelido e desolato bianco e nero di Béla Tarr.
La storia ruota intorno alle peregrinazioni pirandelliane dell’attore teatrale Nikolai Yevlyakhov, impersonato dal divo del palcoscenico post-sovietico Maksim Sukhanov (davvero eccezionale, in un ruolo che ricorda per profilo, carisma e affinità l’Emil Jannings di Crepuscolo di gloria), che nel bel mezzo della Guerra Civile Russa, sconvolto da una cruenta azione dei bolscevichi, decide di abbandonare la professione e di calarsi nei panni del comandante rosso Plotnikov, ucciso nella rappresaglia ma mai dato ufficialmente per morto, approfittando della loro straordinaria somiglianza e dando forma nella vita reale a quell’arte “totale” da sempre irraggiungibile nella finzione.Lopushansky, tutt’altro che alle prime armi, mescola con grande mestiere il vigore drammaturgico del suo protagonista con la prospettiva storico-artistica della nascente Unione Sovietica, sfociando in 135 minuti di cinema maiuscolo e orgogliosamente autoriale, concettuale ed universale, un autentico capolavoro che, per adesso, stacca di netto il resto della competizione.
Certo, tutto è sufficientemente filtrato per rendere il racconto più edificante e a lieto fine di quanto non sia (nonostante la cronaca, che non risparmia nulla all’immaginazione, di un complicato intervento su un bambino gravemente infetto), ma il fattore coinvolgimento alla fine è davvero alto ed è bilanciato tanto dalla sincerità dell’operazione quanto, nonostante l’impiego esclusivo di un paio di reflex digitali Canon e di saltuari interventi in super 8, dalla sua notevole fattura.
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