Primo partecipante competitivo inglese del Festival di Mosca, The Dark Matter of Love viene accolto rumorosamente dalla stampa locale, accusato di propagandare lo stile di vita della borghesia americana come antidoto alla povertà dello scenario sociale post-sovietico: polemiche risibili da piena Guerra Fredda, visto che la pellicola della giovane Sarah McCarthy (cineasta australiana nata da madre russa e padre irlandese) si propone, indipendentemente dalle nazionalità di riferimento, come piccolo, affettuoso trattato pedagogico sull’instaurazione e sulla preservazione dei sentimenti, sulla nascita faticosa dell’amore e dei legami familiari attraverso la vicenda di una famiglia medio-borghese del Wisconsin e dei tre bambini di Arkhangelsk – l’undicenne, anaffettiva Masha e gli irrequieti gemelli in età prescolare Marcel e Vadim – che ha deciso di adottare, e di cui spera, nonostante le barriere linguistiche e le reciproche diffidenze, di conquistare gradualmente la fiducia e l’affetto.
The Dark Matter of Love procede lungo le consuete tappe di assestamento e di adattamento alla nuova realtà quotidiana, dall’incertezza dei primi passi alle prime festività tutti insieme, fino all’inizio e alla fine dell’anno scolastico, intervallate dai saltuari interventi dello psicologo infantile Robert Marvin e della terapista Nicole Milliren, che analizzano i comportamenti e le reazioni di tutti, come due entomologi al cospetto di una colonia di formiche. Il risultato è un delicato film diaristico in perfetto equilibrio fra razionalità e coinvolgimento nel quale le dinamiche interpersonali si susseguono e si evolvono come colpi di scena, un lodevole esempio di saggio scientifico che mescola abilmente il suo intento divulgativo con l’indubbia capacità di raccontare una storia, insomma, il salto di qualità che il concorso riservato ai documentari aspettava da tempo.
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La sezione principale inaugura fiaccamente la seconda metà della selezione, invece, con il georgiano Koma, dramma carcerario à la Detenuto in attesa di giudizio come ne abbiamo davvero visti a milioni, con tutti i contorni kafkiani, le progressive discese agli inferi dell’isolamento e gli abusi autoritativi del caso: vittima delle circostanze è qui un trentenne incensurato in attesa dell’eventuale e sempre meno probabile risveglio dal coma della coppia che ha involontariamente investito, circondato dall’abituale corollario di secondini sadici e di solidali, variamente assortiti compagni di cella. Il quasi esordiente Archil Kavtaradze non dà mostra di grande originalità, si limita a ripetere pedissequamente tutti i canoni del genere, e le poche volte che si permette qualche svolazzo autoriale o qualche notazione atipica sbaglia palesemente tutto, da comprimari di dubbio gusto come il grottesco, eccessivo medico che vigila sornione sulle vittime del protagonista alle scene oniriche sottolineate da uno spropositato utilizzo dello strasentito allegretto della Settima Sinfonia, culminando con le pessime, inconcepibili sequenze animate in stile Valzer con Bashir, spiegabili soltanto come una trovata per rimediare alle carenze del budget. Il carattere autobiografico del soggetto non giustifica quindi la reiterazione selvaggia di cliché e di luoghi comuni risaputissimi del prison movie, ma anzi finisce per far assomigliare il già modesto assunto di Koma più ad un privato sfogo per immagini che ad un progetto cinematografico.
Una graditissima sorpresa arriva invece dalla Polonia, il concorrente che a tutt’oggi nutre maggiori speranze di aggiudicarsi il premio per la migliore regia: Drogowka è un sordido e lercio film poliziesco di tutto rispetto che ci presenta la più abietta compagine di forze dell’ordine – che definire “corrotta” sarebbe eufemistico – vista sullo schermo dai tempi de I ragazzi del coro di Aldrich. L’approccio di Wojtek Smarzowski è ai limiti del cinéma vérité, visto anche il largo e intergrato impiego, sulla scia del depalmiano Redacted, di formati video a bassa fedeltà come la dash cam, la CCTV o il comune videtelefono, una scelta che spesso ha portato i membri stessi del cast a improvvisarsi metteurs en scene e operatori di determinate scene. Drogowka indaga nelle maglie della corruzione della polizia stradale di Varsavia, mostrandocela come un grumo insanabile di prepotenza, di mercificazione e di depravazione che sfociano spesso nel baccanale orgiastico e nello stupro, concedendosi un’ottima prima ora stagnante e ai limiti del reportage dove il contesto, tanto ripugnante quanto intrigante – forse solo leggermente compiaciuto -, prende il sopravvento sul soggetto.
Quando poi nella seconda parte lo sguardo abbandona il branco per concentrarsi su sette specifici personaggi (ognuno dei quali corrisponderebbe velatamente ad uno dei peccati capitali), e più particolarmente sul sergente Krol, di certo non il virtuoso, ma se non altro il meno deplorevole della comitiva, e sui suoi tentativi di scagionarsi da un’accusa di omicidio “piovuta” misteriosamente dall’alto, il film si fa forse un pochino più risaputo e si perde in un intreccio un po’ macchinoso fra imprenditori invischiati con la malavita, colleghi doppiogiochisti e loschi uomini d’affari occidentali (di cui non si dovrebbe faticare a comprendere la provenienza, visto che viene esplicitamente tirato in ballo il bunga bunga), ma si fa perdonare con quel suo tono nichilista e cinico da thriller polanskiano e con un finale anticlimatico che può spiazzare i meno preparati.
Anche in una giornata sommariamente sopra la media della manifestazione si torna però a fare i conti con l’eccellenza e con il circuito maggiore, capace di subissare anche i risultati più alti del concorso: ultima visione della giornata è infatti il franco-cambogiano L’image manquante, vincitore indiscusso dell’ultimo Un Certain Regard e nuovo capitolo della filmografia di Rithy Panh incentrato sulla storia del regime di Pol Pot e sulle vittime dei suoi atroci, deumanizzanti campi di lavoro.
A dieci anni esatti dal suo S21 – La macchina da morte dei khmer rossi, il regista di Phnom Penh torna nei luoghi di rieducazione coatta e di morte che l’hanno visto egli stesso vittima e superstite, ma questa volta, invece di ricreare dal vero le azioni e l’operato della dittatura coinvolgendo direttamente vittime e carnefici come nel suo capolavoro del 2003, sceglie un metodo che sconcerta, scuote e commuove nella sua straordinaria semplicità: contrappuntato da saltuarie parentesi da elegia sokuroviana e dagli immancabili filmati d’epoca, gran parte del film si affida a elaborati diorama e a complesse installazioni in miniatura popolate da spettrali, inquietanti statuine di creta, imbastendo una serie di autentiche case di bambola venute dall’inferno e restituendo quell’orrore invisibile, quell’immagine mancante di sofferenza e di fame che il repertorio video, necessariamente incompleto in quanto propagandistico, non poteva mostrare.
L’idea, sulla carta rischiosissima, funziona alla perfezione e finisce per mettere pesantemente in discussione le certezze e le convenzioni di chi guarda: se già This Is Not a Film “di” Jafar Panahi riduceva in polvere l’idea di messa in scena finzionale e di necessità artistica, L’image manquante va anche oltre, confutando e demolendo la struttura solo apparentemente oggettiva e illustrativa dell’apparato nonfiction, che pur nella sua veridicità non può (e che non deve) tentare di ricreare ciò che è stato (e che non deve più essere).
In questo annichilente senso di sconfitta, le disarmanti rappresentazioni di Panh sono quindi il linguaggio più estremo e profondamente simbolico che sia dato immaginare, con protagonisti privi di anima e di movimento fatti di quella stessa terra su cui sono posizionati e a cui presto si riuniranno (come suggerisce la struggente “sepoltura” del pre-finale), unici credibili personaggi di ciò che può essere, oltre ad un indimenticabile capolavoro, davvero l’ultimo vero documentario possibile.
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