Dopo aver presentato i due migliori film del concorso, i padroni di casa del Festival Cinematografico Internazionale di Mosca purtroppo mancano il triplete e concludono con l’anello debole del loro catenaccio la loro partecipazione alla mostra: il pubblicizzatissimo Skolzhenie è infatti un pastrocchio senza capo né coda a metà fra il gangster movie e il noir, un contorto e a tratti incomprensibile intreccio di sparatorie, doppi giochi e bottini che coinvolge un manipolo di investigatori della polizia – naturalmente corrotti, come ormai molti personaggi visti nella selezione – braccato dagli agenti dell’FSB, che è venuto a conoscenza dei loro traffici da un informatore presumibilmente interno al gruppo e erroneamente riconosciuto in Pepl, protagonista della vicenda in cerca di riscatto.
L’esordiente Anton Rozenberg estende, anzi, gonfia a dismisura il soggetto di un suo vecchio cortometraggio di trenta minuti, che dilatato a due tonitruanti ore di durata a volte non sa più dove andare a parare: ciò che poteva funzionare sulla breve distanza si trasforma in una interminabile sequela di episodi girati tutti con il nervosismo e la tensione delle scene madri senza però averne mai lo spessore. In Skolzhenie manca una prospettiva sul mondo del crimine e della corruzione che invece abbondava nell’affine e di gran lunga superiore Drogowka, e il risultato, al di sotto delle proprie smisurate ambizioni, è soltanto un action più fiacco e noioso della media con superficiali pretese documentaristiche.
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Dopo lo straziante First Cousin, Once Removed, si torna a parlare – questa volta in competizione – di morbo di Alzheimer con lo statunitense The Genius of Marian: se però nel primo caso al centro del reportage era un accademico novantenne già agli stadi finali e fortemente degenerativi della malattia, qui la protagonista è una comune casalinga neo-sessantenne dell’alta borghesia WASP – Pam White, ex-starlette madre del regista – fotografata nei momenti immediatamente precedenti e successivi all’insorgere della demenza. Le differenze, però, non si fermano qui, visto che, rispetto all’indagine metafisico-esistenziale dell’esperimento di Alan Berliner, i toni si stemperano e ci si focalizza in particolar modo sulle ripercussioni domestiche del tutto, sacrificando quella visione cosmica e universale che caratterizzava il dramma di Honig a favore di un più superficiale e autoreferenziale impianto familistico che cerca a bella posta l’identificazione con il pubblico senza davvero travolgerlo.
Non ci si discosta più di tanto dall’atmosfera dei comuni tearjerkers finzionali da multisala e la contestualizzazione idilliaca di un nucleo più che benestante nel quale non esistono conflitti, drammi o zone d’ombra suona decisamente più fasulla e rassicurante, per non dire antipatica e ipocrita, dell’impietosa radiografia biografica di Honig. Alla fine, viene pure progressivamente a mancare l’unico spunto originale del progetto, ossia lo studio e l’analisi del lavoro della pittrice Marian Williams Steele – nonna del regista -, protagonista assente che dà il titolo al film, sulla cui opera le riprese dovevano concentrarsi prima che l’Alzheimer venisse diagnosticato alla figlia Pam e i cui quadri dovrebbero rappresentare una sorta di incancellabile, immutabile paradiso privato dove vigono solo giovinezza, pace e prosperità e che vigila silenziosamente sulle mura di casa, mentre la vita segue immancabilmente il suo corso.
Il livello della giornata si rialza invece con il gradevole Mamarosh, simpatica commedia picaresca ambientata durante le fasi finali e i pesantissimi bombardamenti NATO su Belgrado dell’ultimo conflitto balcanico e incentrata sul tenero rapporto fra il timido quarantenne Pera, proiezionista appassionato del cinema classico d’oltreoceano, e la sua combattiva madre Mara, orgogliosamente devota fino all’ultimo alla causa comunista: i due protagonisti, complice il contesto storico-geografico e il passato del regista Momcilo Mrdakovic come aiuto regista dell’epocale Underground, sembrano la versione invecchiata dei personaggi di Papà è in viaggio d’affari e si muovono malinconici e nostalgici in una società squassata che la guerra ha pressoché totalmente privato dei padri, confidando nella fuga verso rifugi lontani – l’America, da sempre sognata da Pera – nei quali potersi reinventare, burocrazia permettendo.
Mamarosh miscela abilmente le inevitabili coordinate proto-kusturiciane con l’ultimo decennio di commedia europea furbesca da esportazione – a venire in mente è soprattutto Goodbye Lenin!, ma anche l’atmosfera giocosa e babelica di Soul Kitchen, complice il coinvolgimento di Fatih Akin alla produzione – , e pur col suo tono inguaribilmente un tantino ruffiano sa divertire e appassionare con intelligenza e con un gusto cinefilo mai invasivo e sempre puntuale, come quando Pera oltrepassa nascosto in una cassa un posto di blocco ed esulta urlando “ce l’ho fatta, ma’, sono in cima al mondo” come James Cagney ne La furia umana, si siede su una panchina posta sotto a un grande ponte sospeso insieme all’amata Lela in un’immagine che ricorda la locandina di Manhattan, o recita il mantra “ogni giorno, sotto ogni riguardo, progredisco sempre di più” da Ti ricordi di Dolly Bell? (ancora Kusturica). La parte newyorkese funziona meno, si adagia su una comicità un po’ più facilona e su una svolta narrativa che come da programma svela che non tutto ciò che luccica è oro, eppure Mamarosh sommariamente funziona alla grande e sforna trovate spesso irresistibili (una su tutte, la figura di Zora the Wonderwoman, “donna di fiducia” degli zingari presso l’ambasciata americana) e scene da antologia (Mara, ancora innamorata di un passato socialista sull’orlo del collasso, che passa le giornate nel cinema chiuso a vedere Allegri Ragazzi di Aleksandrov, capolavoro della propaganda sovietica anni ’30): si confida, quindi, che grazie alla croce e alla delizia della sua furbizia, questo spassoso piccolo film possa trovare la via della distribuzione internazionale.
Dopo l’esaltante – ancorché tristemente incompleta – prospettiva sul palmares, l’olandese Borgman chiude in tono decisamente minore la vetrina sull’ultimo Festival di Cannes: il film è infatti l’ennesima invelenita invettiva antiborghese che, a Novecento finito da un pezzo, finisce per suonare davvero anacronistica e anodina (come, in fin dei conti, l’analogo Kynodontas di appena tre anni fa). Lo spunto non è tanto diverso da quello del conterraneo Matterhorn, che peraltro resta misteriosamente il film più amato del concorso: lo Straniero che risollevava l’esistenza uggiosa del vedovo Fred si trasforma qui in una sinistra, indecifrabile e quasi lynchiana personificazione del Male infiltratasi sinuosamente in un classico nucleo familiare benestante insieme alla sua (demoniaca?) coorte di servitori.
Lo stravolgimento dell’equilibrio domestico avverrà con i medesimi espedienti di Funny Games (irraggiungibile metro di paragone) e sortirà gli stessi deflagranti risultati dei classici pre-sessantottini Teorema e Il servo, con punte di catatonia e di humour nero fin troppo insistite (la tumulazione del giardiniere su tutte), mantenendo però quella furbesca ambiguità capace di fargli assumere maggiore spessore di quanto in realtà non abbia.
Funzionava decisamente meglio quel Gli ultimi giorni di Emma Blank passato a Venezia nel 2009, quando ancora la pretenziosità dell’insieme non aveva preso il sopravvento sullo stile – ancora asciutto – e sull’assunto, e se è destino che questo Borgman venga ricordato più che altro come l’alieno della selezione cannense di quest’anno, in buona parte se lo sarà meritato.
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