Si è precedentemente giunti a definire il ritorno di Alberto Barbera a Venezia come una pacata damnatio memoriae del discusso ma assai distintivo operato di Marco Muller, a cominciare dal ridimensionamento delle diverse sezioni – se non della loro abolizione – dall’esclusione quasi programmatica di opere provenienti dalla agguerritissima Cina almeno dal concorso ufficiale e dalla relativa conformità dei titoli presentati in concorso, che quest’anno rinuncia a presenze non propriamente riconducibili a una rassegna cinematografica ortodossa e introdotte, non sempre con successo, nelle scorse edizioni, dall’horror di George A. Romero al poliziesco paratelevisivo della figlia di Michael Mann passando per il nazi-erotico di Verhoeven e l’epica propagandistica di Te-Sheng Wei.
Tuttavia – e fortunatamente – il desiderio di fare tabula rasa delle scorse otto manifestazioni non ha pregiudicato quel discorso di continuità autoriale capace di garantire la fiducia e, in certi casi, l’amicizia di alcuni artisti che con gli anni hanno avuto la possibilità di nascere, crescere ed affermarsi proprio grazie a Venezia: al di là dei nomi più altisonanti e affiliati al circuito maggiore (si pensi all’ormai fedelissimo Takeshi Kitano, nonostante la precedente sortita cannense, o a Kim Ki-Duk, che nonostante una carriera decennale acquisì notorietà internazionale con Ferro 3, film sorpresa a Venezia61), è con vero piacere che si assiste all’effettiva promozione sul campo di piccole rivelazioni consacrate dal microcosmo bisettimanale di una mostra del cinema ma non benedette dalla distribuzione, spesso non soltanto in Italia. L’obiettivo di Barbera è chiaro: porre sotto il medesimo riflettore tanto il cinema d’essai riconosciuto non solo dagli addetti ai lavori ma anche da una fetta consistente di pubblico quanto i percorsi registici meno visibili e rimasti, spesso immeritatamente, confinati nell’orbita festivaliera.
Eccoli, i cinque partecipanti a Venezia69 che, durante la conferenza stampa del 26 luglio 2012, hanno suscitato un inevitabile moto di sorpresa negli spettatori comuni e nei frequentatori meno assidui del Lido e della Croisette, ma che, per quanto i giudizi possano essere non propriamente elogiativi, hanno saputo meritare un posto d’onore vicino ai Malick e agli Anderson.
Cominciamo con Brillante Mendoza, prolificissimo esponente di punta del nuovo cinema filippino insieme allo speculare (e non da tutti amatissimo, considerata la durata mai inferiore alle sei ore delle sue opere) Lav Diaz: presentatosi in concorso nel 2009 con il film-sorpresa Lola, accolto con eccessiva freddezza se non con totale indifferenza, Mendoza giungeva al Lido fortissimo di un decisivo premio per la Miglior Regia al sensazionale Festival di Cannes di appena quattro mesi prima, dove ad accontentarsi di premi minori o a restare addirittura a mani vuote furono autori ben più quotati come Tarantino, Bellocchio, Campion e Ming-Liang.
Il disinteresse nei confronti di Lola, invero uno dei concorrenti più memorabili di un’annata ben sotto la media della Mostra, finì quasi per offuscare il ricordo di una pellicola potente e controversa come Kinatay, degnissimo lato minore di un triangolo di vincitori cannensi capaci di confrontarsi mirabilmente con il topos della violenza e delle sue genesi. Se Il nastro bianco di Michael Haneke (Palma d’Oro) e Il profeta di Jacques Audiard (Grand Prix) non ebbero difficoltà a giungere nelle sale, per il più intransigente e difficilmente digeribile film filippino le porte della distribuzione si rivelarono sbarrate sin da subito. Buona parte della critica fu inflessibile: se Alberto Crespi, già severamente, arrivò a definirlo “uno snuff movie da querela”, Roger Ebert non conobbe mezze misure e lo elesse “il peggior film mai presentato al Festival di Cannes”.
Se è vero che Kinatay non teme di mettere in scena un climax composto da sopraffazioni, torture e smembramenti, la stampa non seppe mettere in rilievo il lavoro encomiabile del regista di San Fernando, autenticamente inquietante, mai compiaciuto e, soprattutto, lucidissimo nella sua idea di messa in scena: Mendoza rielabora come suo solito una sceneggiatura non sua imbastendo su un tema non nuovissimo – la discesa agli inferi di un innocente costretto a confrontarsi con il Male quotidiano – un modo di raccontare basato sulla sospensione e sull’attesa, sull’assordanza del silenzio, sull’angoscia delle circostanze. E’ innegabile, si parla in fin dei conti di una prostituta rapita, malmenata, violentata, uccisa e fatta a pezzi per questione di soldi da una spedizione punitiva di giovani poliziotti, ma l’occhio di Mendoza, supportato dalla funzionalissima colonna sonora di Teresa Barrozo e su uno straordinario lavoro sul sonoro, è ben lungi dall’accanirsi sulla vittima o dal ricercare lo shock a tutti i costi, così si concentra sui lunghi, inquietanti, quasi lynchiani tragitti compiuti dalla camionetta verso il luogo del massacro (kinatay in lingua tagalog, appunto), sui giri a vuoto dell’incolpevole protagonista Peping mentre cerca di capire quanto il suo mancato intervento e le sue omissioni possano renderlo diverso dagli assassini che ha accompagnato, sulla autentica paura del buio, del silenzio e del vuoto, in contrasto con un luminosissimo, rumoroso e popolato prologo girato in 35mm, a differenza del resto, tutto in digitale, una dicotomia che, a Manila, ha già fatto proseliti, come il curioso Engkwentro, girato in due unici piani sequenza (uno diurno e uno notturno) dal giovanissimo Pepe Diokno e Premio Luigi de Laurentiis a Venezia66. Supportato da rimandi religiosi funzionali ma un po’ invasivi – la prostituta si chiama Madonna e nell’inquadratura fanno capolino non di rado simboli dell’iconografia cristiana – Kinatay è il biglietto da visita perfetto per una voce già importante del panorama asiatico contemporaneo e una giustificazione più che sufficiente dell’inclusione di Brillante Mendoza in concorso.
Davide fra i Golia e vera e propria scoperta di Venezia è invece il 42enne Ramin Bahrani, che quest’anno, con At any price, cercherà di bissare il largo consenso ricevuto da critica e pubblico a Venezia65 con il piccolo Goodbye Solo, insignito del premio Fipresci e titolo fra i più applauditi fra quelli esclusi dalla sezione principale. Già beniamino del circuito indipendente statunitense – il già citato Ebert pose il suo Chop Shop nientemeno che al sesto posto fra i suoi film preferiti di tutto lo scorso decennio – con Goodbye Solo il giovane autore di Winston-Salem sembrò arrivare all’acclamazione definitiva, ma anche in questo caso – e naturalmente anche in Italia – il film ebbe vita breve al di fuori del Festival.
Il successo di Bahrani in territorio americano è presto spiegato: seppur nato e cresciuto in North Carolina, nel cinema di Bahrani si rivelano tutte quelle influenze registiche europeo-mediorientali, attinte inevitabilmente anche dalle sue dirette ascendenze iraniane, capaci di solleticare lo spirito del circuito alternativo d’Oltreoceano ma mediate a sufficienza affinché il risultato non sia troppo ostico per lo spettatore occasionale. In altre parole, quella di Bahrani è un’arte che vive di compromessi e di mezze misure, abile a rielaborare le lezioni dei maestri, dal quasi conterraneo Abbas Kiarostami, soprattutto, alla fase documentaristica di Werner Herzog, che del successivo cortometraggio Plastic bag – presentato anch’esso a Venezia – è addirittura voce narrante.
Goodbye Solo, storia del rapporto fra un anziano uomo del Texas e del giovane ed espansivo tassista senegalese che cerca di dissuaderlo dai suoi intenti suicidi, rispecchia adeguatamente la formula e se da un lato non nasconde più di tanto la sua derivazione netta dal seminale Il sapore della ciliegia, ne è dall’altro un calco programmaticamente un po’ addolcito e semplificato, a tratti furbetto in una definizione speculare dei suoi personaggi che sembra attingere direttamente dallo schema dei buddy movies. E’ innegabile e apprezzabile il ritratto quasi cassavetesiano della vita quotidiana dei suoi personaggi, dove il momento più simile ad una scena madre è il mancato superamento di un colloquio di lavoro, l’asciuttezza del suo stile e il corto respiro del film tengono alla larga ogni facile prurito pretenzioso e la simpatia di Souleymane Sy Savane è a tratti davvero contagiosa, però alla fine resta principalmente l’impressione che Bahrani, in America, sia un pesce grosso in un piccolo stagno e che, messo a confronto con una realtà autoriale davvero agguerrita, il suo cinema finisca per farsi fin troppo piccolo e generico.
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