L’ospite fuori concorso della penultima giornata di programmazione del Festival Cinematografico Internazionale di Mosca viene dall’estremo oriente e ci riporta, fortunatamente senza esagerare, nell’ambito del grande cinema popolare con una semplice cronaca familiare sconvolta dall’incombere della Storia: Shonen H, tratto dall’omonimo bestseller di Kappa Senoh, è infatti un tradizionale romanzo di formazione incentrato sulle quotidiane disavventure di una famiglia medio-borghese della periferia rurale nipponica travolta dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale, dalle persecuzioni intestine guidate dalle invidie e dai sospetti della comunità, dall’intensificarsi del clima patriottardo e repressivo dell’ultimo biennio e dai devastanti bombardamenti a tappeto che colpirono la popolazione civile.
Protagonista è il pre-adolescente Hajime, cresciuto fra le amicizie euro-americane del padre sarto e i precetti della madre cattolica, scisso fra l’amore per il proprio paese natio e il sogno occidentale proibito rappresentato dai grattacieli newyorkesi e dalle opere verdiane: quasi un remake – celebre tragica conclusione a parte – del classico della Ghibli Una tomba per le lucciole, Shonen H è valorizzato dal tono sobrio e senza compiaciute concessioni al melodramma della regia dell’ottantenne Yasuo Furuhata, che affronta l’autobiografico romanzo di partenza con il pudore e l’asciuttezza del testimone diretto (plausibile, se si considera l’età), con un budget relativamente ridotto – appena 7 milioni di dollari – e uno stile che rinuncia al facile effettismo (gli interventi digitali sono pressoché nulli, non vengono impiegati ralenti o tecniche affini con intenti retorici, la recitazione di tutto il cast si mantiene sobriamente sotto le righe), seguendo con rispetto l’evoluzione drammatica delle vicende. Niente di nuovo sotto il sole (levante), per carità, ma raccontato per due ore abbondanti con gusto, senza sbavature e con un salutare occhio al cinema classico di cui la nuova, cannibale leva di cineasti giapponesi sembra essersi dimenticata.
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Venendo al concorso, torna dopo anni di assenza dalla rassegna moscovita, e con grande soddisfazione degli organizzatori, il cinema brasiliano, rappresentato oggi dalla pasionaria sessantottina Lucia Murat, autrice del bell’A memoria que me contam, ritratto di un gruppo di superstiti della dittatura militare e dei loro figli, prima generazione libera ed emancipata del Paese, riunitisi al capezzale della loro compagna di lotta Ana, un evento che darà a tutti modo di riflettere sulle piccole contraddizioni e sulle grandi sofferenze dei loro atti di sollevazione giovanile e di insurrezione urbana spesso a un passo dal terrorismo. Il punto di vista della Murat, a sua volta vittima delle violentissime repressioni del regime, non indulge nella celebrazione nostalgica o nella facile elegia, ma osserva con grande affetto e con umana tenerezza i suoi sopravvissuti e i suoi fantasmi: vera protagonista della storia è infatti l’assente Ana (modellata sul profilo della leggendaria guerrigliera Vera Sílvia Magalhães), il cui giovane sé si manifesta ai vari personaggi, fra cui la sorella Irene (alter ego della regista, già incontrato nel precedente Que bom te ver viva) e il rifugiato italiano Paolo di Lucca (interpretato da Franco Nero, praticamente una versione tormentata, in quanto omicida colposo, di Cesare Battisti), non tanto come spettro, quanto come coscienza e come ricordo del tempo ritrovato.
Sorta di versione incanutita ed appesantita dei ragazzi di Qualcosa nell’aria passati attraverso il clima totalitario di NO, sono proprio i caleidoscopici personaggi a fare la forza del film, a riassumere alla perfezione la lunga serie di metamorfosi sociopolitiche (e sessuali, visto il ruolo preponderante giocato dalla relazione fra i figli omosessuali di due membri della comitiva) vissute dal Brasile negli ultimi cinquant’anni e a dar vita ad un affresco generazionale palpitante e autentico, saggio e ponderato.
La sezione principale continua il suo momento fortunato schierando il turco Zerre, che non mancherà di impressionare, con il suo tono dimesso, la sua decisa, intransigente identità autoriale ed il suo pregno minimalismo, il presidente di giuria Mohsen Makhmalbaf: memore della lezione neo-neorealista dei fratelli Dardenne – soprattutto del loro capolavoro Rosetta -, il giovane esordiente Erdem Tepegöz documenta la quotidiana indigenza della madre single quarantenne Zeynep (una bellissima, eccelsa Jari Arikan, già pronta per il San Giorgio d’Oro), costretta da un licenziamento senza giusta causa a lavorare in nero in una fatiscente fabbrica tessile di Edirne, che sulla carta offre vitto, alloggio e una paga accettabile per mantenere la madre e la figlia disabile, ma che le aprirà definitivamente gli occhi sul clima di sopraffazione e di squallore che la circonda, ininfluente, invisibile particella (“zerre”, per l’appunto) di un sistema annichilente e prevaricatore.
La cinepresa di Tepegöz si muove in una Istanbul sull’orlo del collasso dove demolire una casa è facile come togliersi un sassolino dalla scarpa, dove l’unica forma assicurata di sostentamento per un ceto operaio ormai addomesticato e televisivizzato è quella di dare (letteralmente e metaforicamente) il sangue alla classe dirigente e dove l’unica soddisfazione è riuscire a sopravvivere giorno per giorno: girato con grande economia di mezzi (come Spaghetti Story e Los chicos del puerto, ma che enorme differenza!) fra sfondi degradati e spettrali equamente divisi fra la periferia della capitale turca e il diroccato stabilimento – indimenticabile il lercissimo dormitorio -, Zerre è il piccolo grande film che il concorso stava aspettando, uno spaccato distaccato e potente che non affonda nella pedanteria del cinema civile e che non intende essere la cronaca del martirio di una eroina sola contro tutti, ma che con pochissimi segnali (la lanugine che fluttua indistinta al sole, le epistassi improvvise di Zeynep, i sacchetti di lavanda venduti senza successo all’uscita dal cimitero) sa riassumere la realtà sconfortante di un Paese meglio di qualsiasi pamphlet.
La giornata si chiude con l’epilogo della trilogia Paradies firmata dall’austriaco Ulrich Seidl, presenza costante ai maggiori festival europei degli ultimi 12 mesi: dopo il turismo sessuale di Liebe e il fondamentalismo cristiano di Glaube (Premio speciale della Giuria a Venezia69), Seidl conclude la propria irriverente girandola in un centro dimagrimento per adolescenti con il breve Hoffnung (Paradise: Hope), ma il meccanismo provocatorio della sua poetica ha finito per mostrare la corda. Protagonista è la tredicenne Melanie, rispettivamente figlia e nipote delle protagoniste dei due capitoli precedenti, alle prese con i ritmi da lager del fat camp di cui è ospite e con le tentazioni erotico-lolitesche risvegliate dall’affascinante medico dell’istituto: il legame con le virtù teologali evocate nel titolo si è fatto decisamente più blando e superficiale, lo stile rigorosissimo di Seidl, fatto di rigide, asettiche inquadrature fisse perlopiù frontali, si è ammorbidito (c’è persino spazio per intere sezioni girate con la macchina a mano) e soprattutto vengono a mancare quegli shock (persino il topos del rito orgiastico, fino ad oggi immancabile) e quella ricerca a bella posta dello scandalo che, ancorché facili escamotages, costituivano fortemente la poetica dell’autore di Canicola, che più che un “poeta della glaciazione” alla Haneke poteva dirsi soprattutto un furbo e talentuoso provocatore. Resta la potenza gelida e sterilizzata di alcune sequenze (in primis, la lezione sul piacere a base di cioccolato), ma il risultato è ancora più sterile del solito e non sa andare oltre la cronaca dell’ordinario squallore che nelle opere precedenti dava sempre spazio ad una riflessione sulla solitudine cosmica dell’Uomo.
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