Includendo nel computo anche la toccata e fuga della preapertura, oggi si chiude la prima metà della 69esima Mostra del Cinema di Venezia, ed è tempo di bilanci: l’accoglienza riservata alle pellicole incluse nel Concorso ufficiale non ha (ancora) raggiunto i trionfalismi e gli accanimenti che l’eclettica selezione mulleriana finiva ogni anno, inevitabilmente per suscitare; se nelle sezioni collaterali, per ora, si sono definiti i temporanei beniamini di critica e pubblico (Wadjda in Orizzonti e Stories We Tell nelle Giornate degli Autori), in quella principale il vero concorrente in grado di conciliare la stragrande maggioranza di critica, pubblico, addetti ai lavori e giuria (come furono, per citare qualche titolo, Cous Cous nel 2007, Lebanon nel 2009 e A Simple Life l’anno scorso) ancora non si è materializzato, confinando quanto finora visto al veloce oblio (At Any Price, Superstar, Lemale et Ha’chalal), alla promozione ma con diverse riserve (E’ stato il figlio, Paradies: Glaube), arrivando a divisioni nettissime fra acclamazioni incondizionate e stroncature feroci (Izmena, The Master).
Ci sarà da scommettere sull’inclusione del primo film della giornata nell’ultima divisione anche dell’imminente To the Wonder, opera con cui l’eremitico Terrence Malick conferma un nuovo corso di iperattività e di profonda continuità stilistica e filosofica ai limiti della serializzazione (solo per l’anno prossimo sono previsti due lungometraggi, uno dei quali già in stato di post-produzione, e un documentario realizzato con gli avanzi di The Tree of Life): tanto quanto il ritorno di Paul Thomas Anderson ha scontentato la fetta più conservatrice dei suoi affezionati ed entusiasmato gli spettatori più preparati, l’ultima fatica dell’abate Faria di Waco (Texas) provocherà con ogni probabilità l’effetto assolutamente opposto, deludendo chiunque si aspetti qualcosa di differente da quanto visto in The Tree of Life.
La storia d’amore fra l’americano Neil e l’europea Marina (l’ideale prosecuzione del personaggio di Q’orianka Kilcher in The New World), giunti all’apice della passione durante una visita all’isolotto di Mont St. Michel, si complica con il loro trasferimento in Oklahoma, dove i primi contrasti daranno il via ad un tormentato processo di separazione che, col tempo, finirà per assumere i connotati di una intimissima, viscerale fine del mondo. Come nel suo film precedente, Malick fa proseguire parallelamente la ricerca dell’infinito amore divino con la conservazione dell’effimero amore terreno, integrando nel racconto anche la vicenda di Padre Quintana, prete cattolico che sembra quasi incarnare l’esito negativo della disperata ricerca di Dio di appena un anno fa. Le tradizionali, drasticissime riduzioni al montaggio – croce e delizia del regista de La sottile linea rossa – qui mietono altre vittime illustri, da Michael Sheen a Rachel Weisz passando persino per la “sua” scoperta Jessica Chastain, e la durata relativamente ridotta rispetto ai suoi progetti più recenti promette un senso di astrazione e di sospensione estatica e antinarrativa ancora più accentuata che in passato.
Con la consapevolezza dell’impossibilità di fornire un’adeguata prosecuzione – visto che, in fin dei conti, non è stata la Mostra ad invitare Malick, ma quest’ultimo a concedere l’onore della sua presenza – la sala Darsena si concede un momento di distensione con il leggerissimo Love Is All You Need, prima sortita del premio Oscar Susanne Bier nel romantico cartolinesco, con la città di Sorrento a fare da sfondo e l’inclusione in una produzione tutta danese di un elemento “esotico” di richiamo come l’irlandese Pierce Brosnan. Alle prese con gli stilemi della commedia romantica da esportazione, l’autrice di In un mondo migliore si prepara a conquistare il pubblico femminile maturo ansioso di rispecchiarsi nella vicenda di Ida, reduce da un cancro al seno, in procinto di organizzare in Italia il matrimonio di sua figlia Astrid e destinata a scontrarsi, secondo il classico calco post-cukoriano di amore/odio, con il futuro consuocero vedovo Philip.
Si riapproda a territori più allineati al contesto festivaliero, in Sala Grande, con Low Tide, nuova tappa sperimentale del nostro uomo in Texas Roberto Minervini, stabilitosi ormai da anni negli Stati Uniti alla ricerca di un cinema che, in patria, si fa sempre più impossibile. E in effetti, la minuscola storia del rapporto silenzioso fra una madre affaccendata e assente con il figlio dodicenne costretto a colmare il vuoto della sua tarda infanzia con lunghe peregrinazioni nel nulla dei suoi pensieri e della realtà circostante, per quanto semplice e innocua nella sinossi, non avrebbe mai avuto modo di essere realizzata in Italia secondo le scelte formali di Minervini, che riduce i dialoghi pressoché a zero e lascia che a parlare sia la tensione emotiva di un rapporto umano tanto basico quanto complesso.
E’ poi il turno dello svedese Blondie (Giornate degli Autori), sorta di scatenata parodia dolceamara di certi tratti distintivi del Von Trier post-Dogma95 (Melancholia in primis), presentata – siano clementi le nostre consorti – dalla delegazione più incendiaria che sia dato vedere (le bellissime Alexandra Dahlström, Helena af Sandeberg e Carolina Gynning): tre sorelle di stampo tutt’altro che bergmaniano approfittano della festa per il settantesimo compleanno della loro madre (e dei suoi ferventi preparativi) per sfogare le proprie reciproche incomprensioni in un gioco al massacro che, a mano a mano, si trasforma in una conciliante riscoperta dell’armonia familiare tutta al femminile.
Si ricomincia con il concorso con il ritorno di Takeshi Kitano al Lido: neanche i più distratti hanno potuto fare a meno di accorgersi del vero e proprio evento del cinema nipponico dell’ultimo decennio, ben più del progressivo successo internazionale del j-horror o della proliferazione di cinematografie shock come quelle di Takashi Miike, Shinya Tsukamoto e Sion Sono. Ci si riferisce, ovviamente, alla ben nota crisi creativa dell’autore di Sonatine e di Hana-bi, impelagatosi, proprio in virtù dell’impeccabilità della sua produzione e dell’acclamazione internazionale che ne è conseguita dall’esordio di Violent Cop fino, almeno, a Dolls, dapprima nella sbandierata e sbilanciata “trilogia del suicidio artistico”, partita quasi sotto il segno di Ferreri con Takeshi’s, proseguita con il caos assoluto Kantoku Banzai! e conclusasi, più tradizionalmente, con Achille e la tartaruga, e poi con il desiderio di rivalsa commerciale dell’ultimo film, di cui questo Autoreiji Beyond è il diretto ed esplicito sequel: non si preannuncia niente di nuovo, rispetto al precedente capitolo, un violento susseguirsi di sopraffazioni fisiche, mutilazioni e sparatorie in stile yakuza legati da un canovaccio gangster piuttosto macchinoso (per ammissione dello stesso regista furono gli omicidi ad essere la base di partenza e addirittura il pretesto della sceneggiatura). Il vecchio Beat Takeshi è consapevole di non avere più niente da dire, e probabilmente questa prosecuzione a tutti gli effetti del primo Autoreiji non scontenterà i fan più accaniti, ma proseguirà imperterrito oltre il punto di non ritorno della poetica kitaniana.
Day 6
Le ultime due giornate hanno sottoposto la popolazione lidense alla salvaguardia plenaria o alla traumatica auto da fé dei due titoli, decisamente antitetici, più attesi e forse temuti di tutta la rassegna, il disorientante saggio entomologico di Paul Thomas Anderson e il vituperatissimo poema elegiaco e cortese di Terrence Malick. Alla luce di responsi così dicotomici, si invocava finalmente l’arrivo del tradizionale titolo in grado di conciliare le diverse estrazioni antropologiche degli spettatori equamente divisi fra stampa specializzata e pubblico occasionale, nonché della giuria: a sedare gli animi e a soddisfare tutti sarà molto probabilmente il francese Apres mai, diretto da Olivier Assayas, salito agli onori delle cronache anche d’oltreoceano per il Golden Globe conquistato dalla serie televisiva Carlos, ma in realtà già esponente di punta, insieme ad André Téchiné e Philippe Garrel, di quella post-Nouvelle Vague che aveva forgiato gioielli come Les roseaux sauvages, La Naissance de l’amour e, in particolare, L’eau froide. Proprio di quest’ultimo, opera seminale degli anni novanta di Assayas, Apres mai recupera quel contesto (post-)sessantottino fatto di contestazioni virulente, di idealismo incondizionato e di contraddizioni deflagranti e formative.
Questa volta, però, il regista di Irma Vep alza il tiro e e aspira al mosaico generazionale di cui il suo precedente capolavoro rappresentava per certi versi soltanto il prologo e la prova generale: lungo l’estate del 1971, si sviluppano la formazione e la progressiva disillusione di un gruppo di diplomandi della provincia parigina, tutti accomunati dalla volonta di preservare la purezza dei propri ideali, trotskijsti, anarchici, trascendentali e artistici che siano. Sembra, in sostanza, che, per una volta, l’avversione tutta nostrana per i cugini d’oltralpe possa risolversi in una tregua in cui a vincere sarà soprattutto, per il bene di tutti, la potenza del Cinema.
Distaccandosi temporaneamente dal circuito maggiore, ci si confronterà con le provocazioni di Leones, incluso in Orizzonti, dove la metafora zoologica si applica ad un gruppo di giovani sospesi nel luogo/non-luogo di una foresta argentina e fra la vita e la morte mentre si aggirano a vuoto come un branco di fiere disorientate, dove persino le più elementari funzioni biologiche vengono magicamente azzerate.
Successivamente, l’odierno componente di un’agguerrita Settimana della Critica molto più attenta del solito alla condizione sociale del nuovo millennio sarà Äta sova dö, della scandinava Gabriele Pichler, la perentorietà del cui titolo allude alla condizione disagiata in cui una giovane cittadina svedese di discendenza balcanica e di fede musulmana finisce per trovarsi dopo aver perso il proprio modestissimo e deumanizzante lavoro in fabbrica.
Si ritorna in Italia e ci si confronta con l’attualità letteraria nostrana con Acciaio, adattamento del secondo classificato all’edizione 2010 del premio Strega ad opera dell’autore di Provincia meccanica, Stefano Mordini: molto in linea con la precedente pellicola di finzione di quest’ultimo, attento ad illustrare la alienante quotidianità della vita di fabbrica di un neo-proletariato frustrato e abbandonato a se stesso. Qui, l’ex-madrina del Festival Vittoria Puccini, nel ruolo di Elena, rappresenta quello stato di rassegnazione di una generazione di trentenni che, nonostante l’impegno e la formazione accademica, finisce per scontrarsi, seppur dal lato della barricata dei padroni, con il proprio ineludibile destino privo di prospettive.
Il concorso si riaffaccia con la riemersione in superficie del coreano Kim Ki-Duk, prolificissimo alfiere del nuovo cinema coreano, che con Pieta ritorna alla durezza e alla concretezza della sua produzione iniziale, antecedente al momento di risonanza internazionale e di estatica astrazione aperto da Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera, chiuso dalla crisi umana e professionale di Sogno e definitivamente metabolizzato dall’autolesionistico documentario Arirang. Qui, in netto contrasto con la poesia struggente di opere come Ferro 3 e La samaritana, si annuncia un disturbante connubio fra iconografia religiosa (la Pietà michelangiolesca del titolo) e scene ad altissimo tasso di erotismo esplicito – proprio ora che il pubblico era riuscito a mettersi alle spalle la pugnalata al cuore di Paradies: Glaube – attraverso la vicenda di un cruento riscossore di debiti che, un giorno, senza prevviso, viene avvicinato da una donna che gli si presenta come la madre che lo aveva abbandonato in tenera età.
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