Quando una legione di creature mostruose, chiamate Kaiju, emerge dagli oceani, scoppia una guerra destinata a distruggere milioni di vite e consumare le risorse umane per tutti gli anni a venire. Per combattere i giganteschi Kaiju viene creata un’arma speciale: enormi robot, chiamati Jaeger, controllati simultaneamente da due piloti le cui menti sono collegati a una rete neurale. Ma anche i Jaeger sembrano impotenti di fronte alla ferocia degli instancabili Kaiju. Sull’orlo della sconfitta, le forze militari che difendono l’umanità non hanno altra scelta che rivolgersi a un duo di eroi male accoppiati: un ex pilota caduto in disgrazia (Charlie Hunman) e una ragazza recluta senza esperienza (Rinko Kikuchi), che vengono chiamati a pilotare un leggendario quanto obsoleto Jaeger, una reliquia del passato. Insieme i due saranno l’ultimo bastione dell’umanità prima dell’apocalisse.
Pacific Rim è un enorme, immenso giocattolo, una colossale giostra di pugni a razzo, lame rotanti e spade a motore: violenza fisica ai massimi livelli con il realismo di un incontro di wrestling tra giganti di carne e titani di metallo dove le armi a gittata sono ridotte al minimo. Un divertissement che non ha altro scopo che l’esaltazione dello spettatore senza effetti collaterali, senza lasciare il più vago dubbio che vi sia una metafora di fondo più sottilmente elevata.
La trama è piuttosto lineare: gli archetipi dei personaggi sono esemplari tanto da sfiorare lo stereotipo razziale (su tutto, la squadra cinese e quella russa con i loro Jaeger a tema) ma stavolta l’ovvietà nello sviluppo non guasta poichè non inquinata dalla pretenziosità di innovazione o originalità e lo spettatore, a cervello spento, può gustarsi le oneste scene di intermezzo tra combattimento e combattimento.
I molti che lo paragonano ad un anime in CG e dal vivo (in particolar modo coloro che cercano improbabili similitudini con Neon Genesis Evangelion, assunto a icona popolare) peccano di superficialità in quanto Pacific Rim si attiene scrupolosamente ai tòpoi, sebbene rielaborati, degli action movie dei primi anni ’90: la caduta dell’eroe ed il suo riscatto, la vendetta della vittima, la rivalità con un compagno et cetera. Anche dal punto di vista del mecha design lo staff ha preferito seguire lo stile “americano”, evitando le strutture più complesse dei mecha degli anime giapponesi moderni, concettualmente più ardite e stimolanti ma che avrebbero rischiato di distrarre dalla semplice e brutale cinetica degli scontri. Da diversi punti di vista, quindi, Pacific Rim è una necessaria, estrema evoluzione di ibridizzazione dei tentativi fallimentari del cinema hollywoodiano come Robojox del 1989.
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La recitazione è globalmente nella media o volutamente sopra le righe (vedi Elba nel suo discorso finale che rieccheggia, sebbene in modo meno pomposo, quello del presidente USA in Indipendence Day) e tutti svolgono dignitosamente il loro lavoro e poco più. Rimane il dubbio sullo svolgimento della sottotrama “cervello secondario” che appare in più punti una forzatura tesa a dare spazio a Ron Perlman, attore feticcio di Guillermo Del Toro dai tempi di Cronos, ed al duo post nerd Gorman/Day.
Dal punto di vista estetico, il film è esaltante: distante dalla visionarietà onirica apprezzata nei due Hellboy ed in Il labirinto del fauno, Del Toro mantiene la sua cupezza visiva, qui particolarmente crepuscolare: giocando con le masse d’acqua, la nebbia, l’oscurità spezzata dal neon delle città, gli scontri tra Jaeger e Kaiju non sono mai illuminati appieno, rappresentazione dell’anima dell’umanità innanzi al pericolo di estinzione. Menzione d’onore allo Shatterdome, ultima base degli Jaeger ad Hong Kong, sviluppato con uno stile che sfiora il dieselpunk.
Pacific Rim è, a suo modo, un pieno successo: ottiene ciò che si prefigge senza sbavature e senza visibili buchi di sceneggiatura e ci porta a sperare che, un giorno, la media dei blockbuster statunitensi possano raggiungere almeno la sua qualità.
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