Che cosa è successo alla Nuova Hollywood?
Passiamo in rassegna la sensazionale cinquina di interpreti che meglio ha rappresentato la rivoluzione autoriale post-sessantottina del cinema statunitense: Robert De Niro, perso Scorsese ed esaurita la carica autoironica innescata da Tarantino e da Ramis, non ha azzeccato un film o un ruolo dalla fine del secolo scorso e ha inanellato una lunga galleria di umiliazioni difficili da dimenticare; Gene Hackman, dopo l’ultima apoteosi de I Tenenbaum, si è lentamente allontanato dalle scene, godendosi la meritata pensione e, soprattutto, un curriculum da romanziere di tutto rispetto; Dustin Hoffman, pur non sprofondando negli abissi del collega De Niro, ha considerevolmente ridimensionato le proprie ambizioni e i propri ritmi lavorativi, pur tentando nuove strade, dal recentissimo debutto alla regia con Quartet al ruolo principale nella sensazionale, sfortunata serie tv Luck; Jack Nicholson, il più selettivo di tutti, è inattivo dal 2010 e, dopo la distratta, marginale partecipazione al trascurabile Come lo sai, sembra ormai sulla via del ritiro.
Pur con qualche caduta di stile, il settantatreenne Al Pacino pare l’unico membro della comitiva a non rassegnarsi alla decadenza e alla vecchiaia, dividendosi mirabilmente fra maiuscole performance per la HBO (i premiatissimi Angels in America e You Don’t Know Jack, senza dimenticare il recente biopic su Phil Spector), una vivace carriera sul palcoscenico – tra cui un’assai applaudita Salomé che ha pure funto da contesto per il suo secondo, eccezionale, docudrama da regista, Wilde Salomé, presentato a Venezia68 – e qualche divertito ruolo da gigione su grande schermo, come il cartoonesco villain di Ocean’s Thirteen, per poter foraggiare con i suoi cachet a sette zeri i propri progetti teatrali.
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Uomini di parola è pertanto da considerarsi un lavoro puramente alimentare per il fu Michael Corleone, che qui è Valentine, anziano piccolo gangster appena uscito di prigione dopo una condanna a 28 anni che viene immediatamente riaccolto dai suoi incanutiti compagni di scorribande, l'”autista” vedovo Richard e il laconico sicario Doc (rispettivamente Alan Arkin e Christopher Walken, altri due protagonisti imprescindibili, più defilati e antidivistici, del cinema d’autore americano dagli anni settanta), che però ha ricevuto dal vecchio boss Claphands l’incarico di eliminare l’amico appena scarcerato per vendicare la morte del figlio.
Purtroppo il regista Fisher Stevens – che ricordiamo più che altro come attore di supporto nel dittico fantascientifico di Corto circuito – e l’inesperto sceneggiatore Noah Haidle confondono il crepuscolarismo con la geriatria e affondano un interessante spunto da polar nella peggior tradizione della commedia caciarona a stelle e strisce di inizio millennio, fra la greve e machista comicità genitale di Judd Apatow e le cialtronate becere e goliardiche di Todd Phillips: tutta la potenzialità malinconica dell’assunto scompare fra gag a base di pillole per l’erezione, priapismi venosi risolti con siringhe elefantiache e insospettabili exploit sessuali senili, stracchi elogi dell’amicizia virile e dei “valori” criminali all’antica che di nobile hanno davvero poco, digressioni senza capo né coda che ammiccano alla fase involutiva del pulp tarantiniano – complice l’apparizione di Vanessa Ferlito (Grindhouse – A prova di morte), al centro di una digressione rape & revenge così becera e di cattivo gusto da lasciare interdetti -, psicologie elementari e dinamiche fra i personaggi a due passi dall’improbabile (come la morte di Hirsch, la reazione della figlia e il di lui successivo, improvvisato seppellimento: cinque minuti da grado zero della sceneggiatura).
Il cast non aiuta e appare più svogliato e male assortito che mai, persino l’indefesso e qui spentissimo Walken, noto per la sua professionalità e per la capacità di far divertire persino nei prodotti più indifendibili (ricordate Il tesoro dell’Amazzonia o Cambia la tua vita con un click?); i 15 milioni di dollari di budget, finiti presumibilmente in gran parte in tasca agli attori, pur essendo una cifra irrisoria, non si vedono minimamente, visto che buona parte del film è composta da prolissi dialoghi nel bordello casalingo della svampita Wendy (Lucy Punch) o nella tavola calda della giovane Alex (Addison Timlin), nipote di Doc, mantenendosi su un ritmo ai limiti del sonnambulismo; la messinscena di Stevens, poi, è così impacciata e piattamente televisiva da non sapere proprio cosa fare con i tre veterani a disposizione e con i suoi personaggi, con i quali è assolutamente impossibile riuscire a simpatizzare, e vengono i brividi all’idea che a un dilettante così clamorosamente impreparato sia stato affidato l’attesissimo adattamento per il cinema di Pastorale americana di Philip Roth.
Insomma, Uomini di parola è un autentico, imperdonabile disastro, un’ora e mezza fra le più tristi e avvilenti che si possano concepire nel cinema americano contemporaneo, la dimostrazione – insieme al coevo The Big Wedding, dove a sfidare la vergogna sono altri divi in rottamazione come Keaton, Sarandon, Williams e l’immancabile De Niro – di quanto poco possa combinare un cast blasonato, imbastito a tavolino ed efficace sulla carta quando a difettare sono soprattutto le idee ed il talento.
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