Quando si guarda un film di Ken Loach si ha sempre la sensazione che le nostre capacità critiche risultino amplificate, probabilmente perché il regista britannico possiede quella rara dote di rendere estremamente chiaro qualsiasi argomento tratti. Il più delle volte Loach ci ricorda chi siamo e da dove veniamo con storie semplici e quotidiane (Riff Raff, Piovono pietre, My Name Is Joe), oppure con lavori di grande precisione documentaria (Terra e libertà, Il vento che accarezza l’erba). E come nel caso di The Spirit of ’45, la sua ultima fatica, sugli schermi a partire dal 12 settembre, distribuito in Italia da BIM. Ecco perché lo amiamo e lo stimiamo: per la sua chiarezza nel presentare “il vero”, e per saper raccontare la Storia, come una disciplina viva e attuale. Chi si trova giornalmente – come il sottoscritto – a sottoporre questa materia a una platea di discenti ipnotizzati dai media portatili sa quant’è complicato conquistarne l’attenzione. Ma un rammarico ulteriore ci viene dal fatto che la pellicola in esame verrà presentata in Italia solo in poche copie, malgrado il suo manifesto valore culturale e la naturale disposizione al dialogo didattico ed educativo.
Cercheremo allora, nel nostro piccolo, d’intraprendere un passaparola che sottolinei le qualità di quest’opera che utilizzando suggestive immagini di repertorio, vecchi spezzoni di pellicole e interviste, più o meno recenti, ad alcuni “protagonisti” del dopoguerra, oggi ottuagenari, ritrae la Gran Bretagna uscita da due conflitti mondiali, nonché liberata dalle responsabilità – e dalle infinite risorse – del più grande impero coloniale della storia. Queste le considerazioni di Winston Churchill, un fiero conservatore, durante un discorso al Parlamento, a ridosso dello scoppio della Prima Guerra Mondiale: “Non siamo un popolo giovane con un passato innocente e una piccola eredità. Ci siamo accaparrati […] una quota assolutamente sproporzionata dei beni e dei traffici mondiali. Abbiamo tutti i territori che vogliamo, e la nostra pretesa di essere lasciati in pace a godere di possedimenti vasti e splendidi, acquisiti principalmente con la violenza, mantenuti in gran parte con la forza, in molti casi sembra agli altri più irragionevole che a noi.”
Ebbene, nonostante la vittoria sulle armate di Hitler, il paese si trovò a fronteggiare la più impegnativa tra le prove: riedificare la nazione materialmente e moralmente alle luce delle sfide della modernità. La popolazione, già logorata dalla crisi dei cosiddetti “Hungry Thirties”, e sottoposta ai lunghi mesi dei bombardamenti dell’aviazione tedesca, aveva resistito ai lutti e alle privazioni, alle sofferenze e agli stenti, con strenuo senso di sacrificio per tutta la durata della guerra, senza tentennamenti, come un corpo unico. All’indomani del tracollo nazista, i successori di Churchill seppero rimettere in piedi il Regno Unito facendo leva sullo stesso spirito collettivo di unità, solidarietà e fraternità che l’aveva animato in tempo di guerra.
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Il primo passo fu la conquista dell’uguaglianza avvenuta grazie alla schiacciante vittoria elettorale ottenuta dai laburisti (1945). I politici di quella generazione, difatti, furono capaci di convogliare tutte le risorse disponibili al fine di rifondare una società devastata dall’egoismo dei grandi potentati e dal cancro del nazifascismo, affrontando con coraggio la sfida della ricostruzione delle abitazioni e delle infrastrutture, dell’apparato produttivo e del lavoro, dell’istruzione e della sanità. Il film descrive quegli anni con grande precisione, toccando più volte le corde della commozione attraverso i ricordi e le testimonianze della gente comune, operai e infermiere, minatori e medici, militari e disoccupati, memori di un passato di miserie, pulci e malnutrizione, ma ora tutti concentrati nello sforzo del cambiamento, per un futuro migliore.
Mentre il sempre più contestato Churchill tuonava contro i pericoli del “socialismo”, il nuovo governo si apprestava a riconvertire la struttura industriale del paese, orientata per 3/4 verso il settore bellico, con una coraggiosa politica di acquisizioni statali allo scopo di abbattere la disoccupazione e limitare gli interessi privati. Ecco allora la nazionalizzazione delle miniere (1947), dei trasporti (1948), di acqua, gas ed elettricità (1949), l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e il Piano per la Casa, che realizzò le “New Town” al ritmo di 300 mila nuove abitazioni di edilizia popolare l’anno, per non parlare degli interventi di riqualificazione scolastica e dei sussidi sociali, degli incentivi alla cultura, della ripresa degli spettacoli teatrali, dell’impulso alla cinematografia…
In meno di un decennio la Gran Bretagna aveva saputo ricreare un tessuto produttivo e sociale di prim’ordine dimostrando la bontà delle politiche keynesiane che propugnavano il ruolo dello stato come motore dell’economia. Il modello inglese, più ancora del cosiddetto “socialismo reale”, influenzò le politiche di molti paesi europei, tra cui l’Italia, decisamente favoriti nella ricostruzione dall’esempio britannico ancora in fieri. Ma soprattutto, il governo di Londra aveva restituito alla popolazione dignità e benessere, preparandola alle sfide che i decenni a venire avrebbero nuovamente presentato.
E che non tardarono a mettere in discussione quanto faticosamente realizzato. Il filmato di Loach ci parla di un modello ideale incrinato nel 1979 dall’avvento di Margareth Thatcher, decisa seguace delle teorie liberistiche di Milton Friedman. La “lady di ferro” iniziò una politica di privatizzazioni selvagge smantellando di fatto lo stato sociale, provocando la chiusura del 90% delle miniere e la distruzione dell’apparato produttivo e manifatturiero inglese, in nome di una riconversione finanziaria con conseguenze che ancora la Gran Bretagna non ha smesso di patire. E tutto ciò nella piena indifferenza dei sindacati e del Labour Party, che dopo più di un decennio avrebbe partorito “il riformismo rosa” di Tony Blair.
Eccellente sul piano esplicativo, quanto teso e avvincente per tutti i 94 minuti della sua durata, The Spirit of ’45 si chiude proprio come aveva esordito, con i ritmi dell’epoca che accompagnano le scene di giubilo a Piccadilly Circus, con militari e civili che festeggiano la fine della guerra: immagini in bianco e nero all’incipit del film, e a colori (le uniche) in conclusione dello stesso, sequenze che ammiccano, come una riflessione impregnata di pessimismo, alla gioia virtuale dei nostri tempi.
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