Piuttosto che congedarci con il Rasputin più adiposo e la zarina Aleksandra più incartapecorita che la storia del cinema ricordi, preferiamo chiudere il Festival Cinematografico Internazionale di Mosca con una ben più nobile e appropriata pellicola di chiusura, il bel Zerkala, nervoso ed intenso biopic dedicato dalla regista Marina Migunova a Marina Cvetaeva, imperatrice tragica della corrente simbolista russa dell’inizio del secolo scorso: poteva rivelarsi davvero complicato portare sullo schermo le infinite vicissitudini della sfortunata poetessa moscovita, formatasi precocemente alla Sorbona dopo un breve e luttuoso soggiorno sulla riviera ligure, perseguitata dal regime bolscevico per le sue forti simpatie controrivoluzionarie, costretta ad un esilio ventennale fra Berlino, Praga e Parigi in condizioni di crescente indigenza, rimpatriata suo malgrado allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e morta suicida nel 1941, poco dopo la fucilazione del marito Sergei Efron e l’arresto della figlia Ariadna, entrambi accusati di spionaggio.
Grazie al prezioso contributo di Yuri Arabov – da oltre venticinque anni sceneggiatore di fiducia di Sokurov – e all’interpretazione appassionante di Viktoriya Isakova, il film passa indenne attraverso le sue piccole imperfezioni (a cominciare da una serie di sottotrame un po’ accessorie) e non si eleva pretenziosamente all’altezza del suo inarrivabile personaggio, ma si mantiene dolcemente sotto le righe, descrivendo con delicatezza l’epoca agitata e tesa della Russia post-rivoluzionaria attraverso la deformazione lirica dei versi della Cvetaeva e volando alto soprattutto negli episodi più intimisti e simbolici, come la festa a casa Voloshin, dove avviene l’incontro fra la protagonista e il futuro marito, anticamera idilliaca e romantica di un futuro incerto e sanguinoso.
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Il concorso si chiude invece con una pellicola a tinte decisamente forti, il giapponese Sayonara Keikoku, agghiacciante storia di violenza che il regista Tatsushi Omori ha tratto dall’omonimo romanzo di Shuichi Yoshida: a scatenare gli eventi e a fungere da cornice sono il brutale omicidio di un bambino e l’immediato arresto della madre in quanto principale sospettata ma l’azione si sposta immediatamente sul vicino di casa di lei, il laconico Shunsuke, e sulla sua strana, insondabile relazione con la coetanea Kanako.
A legare i due è una forma di sadomasochismo tutto psicologico nella quale la ricerca della sofferenza per lui e del piacere per lei, portati alle estreme conseguenze, si scoprirà di volta in volta avere radici profondissime e impossibili da estirpare. La regia di Omori immerge i protagonisti della pagina scritta nella sua usuale atmosfera squallida e austera, insanabilmente grigia nella quale la catarsi, se si manifesta, non cambia comunque nulla e nella quale i suoi personaggi sembrano muoversi in un mondo a se stante, governato da regole proprie e inaccessibile al resto della società: lo sguardo, nonostante il tema, non è mai compiaciuto e non si sofferma morbosamente sugli aspetti più inquietanti della vicenda, ma si posa compassionevolmente su un microcosmo dove amore e dolore vanno di pari passo, fino a corrispondere, ma senza mai raggiungere un culmine liberatorio. Sayonara Keikoku, con il suo minimalismo viscerale vicino alla poetica del Presidente di Giuria Mohsen Makhmalbaf, contrapposto al dinamico cinema di genere dei giorni scorsi, coinvolge grazie alla sua capacità di eludere facili classificazioni e interpretazioni univoche, prenotando verosimilmente un posto nel Palmares.
L’ultimo ospite fuori concorso della Mostra, già passato fra scrosci di applausi infiniti per le rassegne di mezzo mondo, viene dall’Indonesia e si ricollega idealmente al magnifico L’image manquante, visto pochi giorni fa: se la riflessione lirica, disarmante e primitivista di Rithy Panh tornava agli albori della rappresentazione scenica – i diorama – per tentare di illustrare l’irriferibile, il danese The Act of Killing prende tutt’altra strada e si affida alla potenza anche destabilizzante e sconvolgente della ricostruzione finzionale.
Ancora una volta è una ferocissima dittatura terzomondista a fare da sfondo: al posto degli invisibili, irraggiungibili gerarchi del Partito Comunista di Kampuchea, vengono interpellati – questa volta direttamente – i bracci armati dello spaventoso Nuovo Ordine indonesiano, che dalla metà degli anni sessanta, sotto la guida del Generale Suharto, oppresse, torturò e massacrò con l’alibi della propaganda antisocialista oltre un milione di persone fra dissidenti, contestatori e gente comune con il sostegno della piccola e grande criminalità locale.
I torturatori e gli aguzzini di allora, tutt’altro che redenti e pentiti, anzi, orgogliosi dei loro atti di gioventù, sono chiamati dal regista Joshua Oppenheimer a ricreare sul set di un progetto cinematografico fittizio le loro malefatte in totale libertà creativa, rievocando con buonumore e nostalgia i tempi in cui il sangue sgorgava a fiumi con il beneplacito della società civile e affidandosi alla loro fantasia, distorta a tal punto da fargli immaginare e mettere in scena assurde sequenze da thriller hollywoodiano o, nel picco surreale del film, da musical esotici, con tanto di anime delle loro vittime a ringraziarli cantando per averli uccisi e mandati in paradiso.
Il progetto di Oppenheimer, talmente rischioso da rendere necessario accreditare anonimamente oltre metà della troupe, è diretto e unico discendente del grande documentario di scuola Herzog (che infatti è produttore esecutivo, insieme al premio Oscar Errol Morris), ed è capace, nella sua visionaria mostruosità, di far impallidire le più allucinanti creazioni di Jodorowsky o di David Lynch: The Act of Killing (“l’atto di uccidere”, ma anche “la rappresentazione della strage”) è una delle pietre miliari della non-fiction contemporanea, ancor più nella sua versione integrale da 160′ (a cui purtroppo è stata qui preferita la versione sforbiciata da due ore scarse), uno dei più impressionanti saggi sulla condizione umana degli ultimi decenni che chiude in bellezza la vetrina non competitiva del Festival di Mosca.
Si è visto proprio di tutto, a questo trentacinquesimo Festival Cinematografico Internazionale di Mosca, un concorso la cui media del 6 non è da individuare nella piattezza della selezione, ma nella distribuzione a tratti manichea fra titoli di assoluto valore e partecipanti di interesse pressoché nullo, dal vertice drammaturgico della tragedia esistenziale di Rol’ all’abisso para-autoriale e cinematograficamente analfabeta di Delight, dall’amarissimo, concitato e repellente noir suburbano di Drogowka alla banalità irresoluta e stravista di Koma, dal sottilmente ambizioso affresco generazionale di A memoria que me contam all’insistita, autocommiserativa povertà di mezzi, ma soprattutto di argomenti, di Spaghetti story: a imporsi sul resto dei concorrenti e a mettere le mani fermamente sul San Giorgio d’Oro è stato il gioiello delle ultime giornate, quel Zerre capace di riconciliare pubblico e critica con quel cinema dalla decisa impronta festivaliera che non avrebbe affatto sfigurato in una cornice più istituzionale come quella di Venezia o di Berlino e che, con i suoi caratteri essenziali e primigeni, rimane molto vicino all’universo tematico ed espressivo del presidente Mohsen Makhmalbaf.
I dubbi del regista iraniano e dei suoi colleghi giurati devono essersi protratti fino all’ultimo momento, dato che il Premio Speciale della Giuria è finito nelle mani di Tatsushi Omori e del suo Sayonara Keikoku, film di chiusura della rassegna, che ha regalato alle platee gli ultimi brividi e gli ultimi shock rimescolando le carte di un’assegnazione premi che sembrava negli ultimi giorni diventata scontata: un’altra vicenda di umana disperazione, ancor più estrema, si aggiudica quindi il secondo posto sbarrando la strada a quel paio di affettuose, ilari e appena un po’ edificanti commedie (Rosie e Mamarosh) che avevano rischiarato il tono generalmente austero della competizione.
Alla fine, la trappola ordita dal cineasta coreano Young-heun Jung è scattata con successo, visto che il suo Lebanon Emotion conquista il Premio per la Migliore Regia, forte delle sue ellissi e del suo clima di pure astrazione che con un tocco di furbizia hanno trasformato un progetto molto privato in un forse troppo programmaticamente enigmatico e indecifrabile oggetto misterioso: dispiace vedere a bocca asciutta il polacco Wojciech Smarzowski, autore della pellicola forse più interessante dal punto di vista registico, il notevole Drogowka, che adottando svariati formati e stili di ripresa, sapeva vivacizzare e personalizzare lo schema del poliziesco tradizionale.
Azzerando la concorrenza praticamente da subito, il russo Aleksey Schevchenkov viene investito del Premio per la Migliore Interpretazione Maschile di questa edizione grazie al suo ruolo principale in Iuda, soffertissima e lancinante interpretazione dell’Iscariota che ha convinto immediatamente tutti e che non faticherà a proiettarlo insieme al giovanissimo regista Andrey Bogatyrev nel circuito maggiore della cinematografia locale.
Restano fuori la credibile, esemplare doppia performance di Jean-Hugues Anglade in L’autre vie de Richard Kemp e, soprattutto, il monumentale ritratto attoriale di Maksim Sukhanov in Rol’ (che resta peraltro il titolo più valido di tutto il concorso), ma c’era poco da fare contro un rivale così forte.
Il percorso di gloria di Zerre non si ferma al riconoscimento maggiore e continua con il Premio per la Migliore Interpretazione Femminile, assegnato alla bellissima protagonista Jale Arikan, cuore pulsante e presenza determinante dell’opera, che con la sua prova intensa e sotto le righe sbaraglia le rivali ultrasettantenni Mira Banjac (Mamarosh) e Sibylle Brunner (Rosie).
Decisamente più discutibili i trofei collaterali: se fa piacere vedere il dimenticato A memoria que me contam incoronato dalla giuria del premio FIPRESCI e se non suscita grande sorpresa la scelta di Iuda come miglior film russo dell’edizione, suonano piuttosto sconcertanti l’idea del banale Koma come pellicola più amata dal quotidiano filogovernativo Kommersant’ (e non sarebbe sbagliato pensare ad un’iniziativa diplomatica, trattandosi di una produzione georgiana) e soprattutto l’apoteosi del fiacco e ruffianissimo Matterhorn, che oltre al prevedibile Premio del Pubblico – già ottenuto a Rotterdam – ottiene il favore del Sindacato dei Critici Russi e della locale Federazione dei Cineclub.
PAGELLA:
Silent Ones (Ricky Rijneke, 2013 – Olandesi Minori) – 7½
Dark Blood (George Sluizer, 2012 – Olandesi Minori) – 4½
A Touch of Sin (Jia Zhangke, 2013 – 8 film e ½) – 8
Heli (Amat Escalante, 2013 – 8 film e ½) – 7+
World War Z (Marc Forster, 2013 – film d’apertura) – 3
L’Autre Vie de Richard Kemp (Germinal Alvarez, 2013 – Concorso) – 6½
Delight (Gareth Jones, 2013 – Concorso) – 3
And Who Taught You to Drive? (Andrea Thiele, 2012 – Concorso Documentari) – 6½
L’Etoile du Jour (Sophie Blondy, 2012 – In giro per il mondo) – 7-
Rosie (Marcel Gisler, 2013 – Concorso) – 7+
Natsu-no Sakebi [Shout of Summer] (Hiroshi Toda, 2012 – Terza Età) – 2
L’Ecume des Jours (Michel Gondry, 2013 – In giro per il mondo) – 4
Nugu-ui Ttal-do Anin Haewon [Nobody’s Daughter Haewon] (Hong Sangsoo, 2013 – Nuovo Cinema Coreano) – 6/7
Kholokost – Kley dlya Oboev? (Mumin Shakirov, 2013 – Concorso Documentari) – 2
Judas (Andrey Bogatyrev, 2013 – Concorso) – 8
Matterhorn (Diederik Ebbinge, 2013 – Concorso) – 4½
Spaghetti Story (Ciro de Caro, 2013 – Concorso) – 3
Sin-se-gye [New World] (Hoon-jung Park, 2013 – Nuovo Cinema Coreano) – 6½
Le-ba-non Kam-jeong (Young-heun Jung, 2013 – Concorso) – 7½
Los Chicos del Puerto (Alberto Morais, 2013 – Concorso) – 4½
The Gatekeepers (Dror Moreh, 2012 – Libero Pensiero) – 7+
Voyna Princessy (Vladimir Alenikov, 2013 – Premiere) – 4
Rol’ (Konstantin Lopushansky, 2013 – Concorso) – 8+
First Cousin Once Removed (Alan Berliner, 2012 – Libero Pensiero) – 7+
Blood Brother (Steve Hoover, 2013 – Libero Pensiero) – 6/7
The Dark Matter of Love (Sarah McCarthy, 2013 – Concorso Documentari) – 7
Koma (Archil Kavtaradze, 2013 – Concorso) – 4
Drogowka (Wojciech Smarzowski, 2013 – Concorso) – 7½
L’Image Manquante (Rithy Panh, 2013 – 8 film e ½) – 9
Skolzhenie (Anton Rozenberg, 2013 – Concorso) – 4
The Genius of Marian (Banker White, 2013 – Concorso Documentari) – 5½
Mamarosh (Momcilo Mrdakovic, 2013 – Concorso) – 7-
Borgman (Alex van Warmerdam, 2013 – 8 film e ½) – 5
Shonen H (Yasuo Furuhata, 2013 – Premiere) – 6½
A Memoria que me Contam (Lucia Murat, 2012 – Concorso) – 7½
Zerre (Erdem Tepegoz, 2012 – Concorso) – 8
Paradies: Hoffnung (Ulrich Seidl, 2013) – 6-
Zerkala (Marina Migunova, 2013 – Premiere) – 7
Sayonara Keikoku (Tatsushi Omori, 2013 – Concorso) – 7
The Act of Killing (Joshua Oppenheimer, 2012 – Libero Pensiero) – 9
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