Passata la lente di ingrandimento sulla sezione competitiva della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è tempo di soffermarsi sugli ospiti più particolari e significativi di una rassegna che si prospetta altrettanto allettante anche distante da Leoni, Coppe Volpi e mondanità assortite.
Scavalcando l’immancabile gettone hollywoodiano di Gravity posto in apertura, il Fuori Concorso trabocca di offerte assolutamente imperdibili che nessun aficionado festivaliero fornito di una buona dose di pazienza e di resistenza dovrebbe lasciarsi sfuggire: ad imporsi sui quindici restanti lungometraggi, che includono il commovente memoir Summer 82 – When Zappa Came to Sicily che il siciliano Salvo Cuccia ha dedicato alla turbolenta tappa palermitana dell’immenso musicista americano Frank Zappa e il biopic Wałęsa – Człowiek z nadziei, con cui il veterano Andrzej Wajda omaggia il fondatore di Solidarność simbolo della Polonia post-sovietica, sono infatti tre pellicole-monstre come Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht, Feng Ai e At Berkeley a troneggiare con le loro quattro ore piene di durata e con il loro atteggiamento di sfida nei confronti della narrativa cinematografica tradizionale.
Il primo, unica opera di fiction del terzetto, è l’ulteriore, insperata appendice che l’ormai ottantenne Edgar Reitz, forse l’unico cineasta del mondo a poter concorrere al titolo di erede ideale di Marcel Proust, ha deciso di apporre alla sterminata trilogia di Heimat, un excursus in trenta capitoli sui fatti più salienti della Storia tedesca del ventesimo secolo attraverso il punto di vista di un piccolo villaggio dell’Hunsrück, dei suoi abitanti e delle loro piccole dinastie: dopo la breve e monoepisodica postilla di Heimat-Fragmente: Die Frauen, passata colpevolmente sotto silenzio a Venezia63, Reitz sceglie di non proseguire cronologicamente il suo magnum opus, conclusosi lapidariamente la mattina del 1° gennaio 2000, ma di risalire alle sue origini e di riportare la famiglia Simon indietro di un paio di generazioni, precisamente a metà Ottocento, periodo di ingenti spostamenti dalla Germania verso l’America del Sud e di scontri fra tradizionalisti e anticonformisti, fra sedentari e anime migranti, prefigurazione degli Hermann, delle Lulu e delle Marie (la cui interprete Marita Breuer è a sorpresa nuovamente nel cast) che abbiamo per tanti anni serbato nel cuore ed amato.
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Con il secondo titolo della triade, si approda in territori non-fiction e si rivede al Lido una delle presenze più autorevoli e mai abbastanza celebrate della cinematografia del secolo appena iniziato: il documentarista Wang Bing, dopo l’apparizione a sorpresa a Venezia67 con il magistrale Jiabiangou (Il fosso), angosciante cronaca di vita quotidiana nei campi di lavoro maoisti, e la meritata vittoria nella sezione Orizzonti appena l’anno scorso con l’eccellente San zimei (Tre sorelle), la voce più autorevole e coraggiosa della cinematografia cinese contemporanea ritorna con il devastante, caleidoscopico ritratto della popolazione di un’isolata casa di cura e delle loro insanabili disperazioni di tutti i giorni, nel suo consueto stile fluviale che sacrifica ben poco alla cabina di montaggio e che di certo non spaventerà gli ammiratori di lungo corso, già scontratisi con le nove ore dell’esordio Il distretto di Tiexi (trasmesso su Fuori Orario) e le quattordici ore di Caiyou Riji.
Il secondo saggio di non-fiction sperimentale di questa edizione proviene invece da oltreoceano e ci restituisce, dopo il formato più accessibile del comunque ottimo Crazy Horse – di passaggio alle Giornate degli Autori di Venezia68 -, un Frederick Wiseman al massimo della forma: autore di epocali fotografie sociologiche come Basic Training e Welfare, il padre del documentarismo statunitense moderno ritrova il contesto giovanile dei precedenti High School e (soprattutto) High School II, ma lo trasporta nel contesto della celeberrima università californiana che esattamente mezzo secolo fa fu ribollente brodo di coltura per il Free Speech Movement e per le innumerevoli manifestazioni di protesta che diedero il via alla controcultura hippie e alle mobilitazioni sessantottine. At Berkeley però, oltre a stendere un ponte fra la società accademica di allora e quella di oggi, sarà anche l’ennesima dimostrazione di un esemplare lavoro di analisi e di inchiesta lontanissimo da qualsiasi sensazionalismo o protagonismo, capace di mostrare ancora una volta il lato più lucido ed imparziale del linguaggio filmico.
Anche tornando su binari più convenzionali, però, la carne al fuoco resta moltissima: se i nostalgici dell’animazione nipponica che fu potranno godersi una versione riveduta e aggiornata di uno dei loro beniamini in Space Pirate Captain Harlock, c’è grande fermento per la nuova sortita di Kim Ki-Duk, che dopo una crisi artistica personale risolta definitivamente con la confessione di Arirang e con il Leone d’Oro vinto a mani basse l’anno scorso si presenta a Venezia con Moebius (dato fino all’ultimo addirittura in Concorso), con il quale prosegue la svolta sanguinolenta ed estrema aperta dallo scandalo di Pietà; annunciato solo in un secondo tempo, Une promesse di Patrice Leconte, reduce dal fallimentare e malriuscito esperimento in animazione de La bottega dei suicidi, traspone sullo schermo la novella Viaggio nel passato di Stefan Zweig e, fra amori messi a durissima prova da distanze e circostanze durante gli stadi finali della Belle Époque, cerca di riproporre le atmosfere struggenti dell’illustrissimo classico Lettere di una sconosciuta, mentre il giapponese Sang-il Lee rischia moltissimo con il remake ufficiale di una pietra miliare come Gli spietati di Eastwood, riadattato fra shogunati in guerra e duelli con la katana.
E mentre fra le presenze italiane si segnala il mediometraggio Con il fiato sospeso, con cui la talentuosa Costanza Quatriglio ritorna al Lido dopo il meritato Nastro d’Argento vinto con il recente Terramatta, un altro documentario merita particolare menzione: The Armstrong Lie, iniziato come reportage celebrativo sul ritorno in scena del ciclista texano e trasformatosi, alla luce del recente scandalo sul doping, in un progetto diametralmente opposto, è il tentativo da parte dell’esperto Alex Gibney (premio Oscar nel 2008 per il notevole Taxi to the Dark Side) di riflettere sul volto mutevole della comunicazione e sul carattere effimero della gloria.
Insomma, chi credeva che il meglio della Mostra sarebbe stato riservato esclusivamente alla competizione ufficiale, resterà notevolmente e piacevolmente sorpreso.
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