Si apre ufficiosamente in un clima prettamente conviviale, informale e scanzonato la settantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fra un’affluenza decisamente alta – a rischio pienone – per i posti risicati della Sala Perla e una delegazione che, per completezza e interazione col pubblico, ha ricordato più l’attitudine goliardica di una squadra di atleti dilettanti che il rigore di una rappresentanza festivaliera, con la solita accoglienza confidenziale del fido Roberto Barzanti, per una volta seduto sul palco come un crooner di altri tempi, a corollare il tutto.
L’atmosfera è goliardica ma non per questo cheap, tradizionale ma scherzosa, come a dire che, in fin dei conti, i giochi si apriranno in realtà il giorno dopo, ma che quattro risate potremo farcele comunque senza eccessivi sensi di colpa: L’arbitro, inserito fuori concorso nelle Giornate degli Autori, si presenta così, senza particolari velleità e senza l’ambizione di rappresentare il primissimo passo di una manifestazione che, ancor più del solito, vista la cifra tonda, chiederà di essere presa maledettamente sul serio. Resta tuttavia un po’ l’amaro in bocca, se si pensa al grande risalto, senza concorrenza né successive repliche, dato ad un piccolo film come questo, un po’ fuori posto nella maestosa cornice dell’appuntamento lidense. Certo, siamo lontani dai tristi marchettoni, con tanto di Sala Grande a disposizione e di nutrita claque al seguito, concessi inspiegabilmente all’infame Box Office 3D di Ezio Greggio appena due anni fa, ma si prova comunque un certo rimpianto al pensiero di una vetrina così grande e centrale per un oggettino di valore non esattamente inestimabile.
L’esordiente regista Paolo Zucca dimostra di aver assimilato con una certa disinvoltura anni di professionismo nel campo pubblicitario e vanta nel suo curriculum un notevole ventaglio di cortometraggi, il più fortunato dei quali (insignito nientemeno che del David nel 2009) funge da base per il suo primo lavoro su lunga distanza.
Lo spunto, infatti, è nuovamente la decadenza di un rinomato “principe degli arbitri” (Stefano Accorsi), macchiatosi di un grave illecito sportivo a livello europeo e retrocesso con disonore al campionato sardo di terza serie, dove si ritroverà a vigilare su una finale di stagione resa tesissima dalla rivalità fra i “signorotti” del Montecrastu e gli scarsissimi mezzadri dell’Atletico Pabarile, guidati dai precetti paterni e severi dell’allenatore cieco Prospero (Benito Urgu) e improvvisamente miracolati dall’estemporaneo ritorno in patria del fortissimo attaccante Matzutzi (Jacopo Cullin). Ciò che però funzionava alla perfezione in quindici stringatissimi minuti di durata qui pare dilatarsi a dismisura e perdersi in una struttura fragilissima di sottotrame che non sembrano andare da nessuna parte e che mettono sullo sfondo l’interessante potenziale allegorico, se non addirittura cristologico, del suo tormentato e sfaccettato protagonista, cattolico devoto a nome Cruciani che entra in scena in un notevole prologo muto in un evidente posa da crocefissione.
Da quel momento, purtroppo, l’equilibrio a mano a mano si sgretola, i registri si amalgamano a fatica passando con non-chalance dal farsesco al patetico se non addirittura al drammatico e all’elegiaco, le gag fisiche e verbali, fra capitomboli e battutine da avanspettacolo, si riallacciano a un repertorio museale e il prodotto finale in sé sembra più che altro il risultato di tante ingerenze produttive, Film Commission sarda e coproduttori argentini in testa, volte a portare a tutti costi l’idea a raggiungere la durata minima per un lungometraggio: le nervose schermaglie amorose fra Matzutzi e la figlia dell’allenatore Miranda (una Geppi Cucciari decisamente sopra le righe) si mangiano metà film e non portano assolutamente a nulla, le caratterizzazioni sono più che altro di seconda mano (l’ambiguo, luciferino Candido interpretato da un pur bravo Marco Messeri, ma soprattutto il brutto ed esagerato macchiettone di Francesco Pannofino) e certe scene sembrano essere state aggiunte gratuitamente per allungare il minutaggio, in particolare le incomprensibili sequenze di ballo.
E’ un vero peccato, perché Zucca ha un ottimo occhio per le inquadrature e sa muovere sapientemente la macchina, ottiene il meglio dalle location aspre e quasi western della sua Sardegna e sa circondarsi da un comparto tecnico di tutto rispetto, tra cui si segnalano le musiche evocative del solito Andrea Guerra e, soprattutto, l’eccezionale bianco e nero alla Ciprì di Patrizio Patrizi: la sostanza, però, è tutto sommato modesta e avrebbe meritato un approfondimento di gran lunga maggiore a scapito di molte facili risoluzioni comiche, che finiscono per trasformare il tutto in una specie di imitazione al pecorino di Shaolin Soccer.
Un vero peccato, insomma, bilanciato però dalla certezza che, dopo un esordio ancora legato al passato, l’evidente talento di Zocca possa definitivamente sbocciare.
[L’immagine di apertura, che risale a poche ore fa, è di Eugenio Boiano]
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