Non c’è neanche il tempo di riprendersi dall’intensa giornata non competitiva di ieri che il concorso arriva prepotentemente a bussare alle porte della Sala Darsena con un terzetto di titoli che più variegato di così non si potrebbe: prima vittima di una fossa dei leoni armata di laptop e taccuini è la nostra Emma Dante, cui spetta l’onere di aprire il concorso cercando di evitare gli strali di una critica con gli artigli già inevitabilmente sguainati per il film autoctono di turno.
C’è ben poco da recriminare, visto che l’esordio su grande schermo della nota regista teatrale siciliana è il notevole biglietto da visita di una delegazione tricolore che, per una volta, promette di fare coralmente sfracelli: intelligente adattamento del suo esordio nella narrativa datato 2010 e già dalla stessa Dante trasposto per il palcoscenico, Via Castellana Bandiera è sostanzialmente una singolar tenzone fra poverissimi che vede Rosa e Clara, una coppia lesbica di passaggio a Palermo, scontrarsi con la pervicacia dell’anziana immigrata albanese Samira. L’Ok Corral della situazione è la stretta stradina che dà titolo al film e che vede le tre donne paralizzate nelle loro due automobili, in paradossale attesa che l’una ceda il passaggio alle altre e viceversa. A vigilare sulla situazione e a creare lo stallo è la famiglia Calafiore, clan di truci trafficoni locali il cui patriarca Saro è rimasto vedovo della figlia di Samira, mentre il variegato ed omertoso vicinato funge da indistinto coro greco e da mediatore.
La Dante, assistita in fase di sceneggiatura dallo scrittore Giorgio Vasta, smorza i toni grotteschi e l’atmosfera babelica del romanzo di partenza, elimina alcuni passaggi, perlopiù di natura erotica (la scena di sesso fra Rosa e Nicolò, figlio adolescente di Saro, gli incontri omosessuali clandestini di suo fratello maggiore Natale) e arricchisce la pagina scritta con intuizioni visive curiose, come l’effettiva ampiezza della strada percorribile, che in effetti intrappola i mezzi nelle maggioritarie inquadrature “interne”, ma che ripresa esternamente si rivela larga a sufficienza per l’accesso di ambo i sensi, come a suggerire che il conflitto fra le due fazioni è principalmente qualcosa di interno e di psicologico.
Era difficile restituire il clima febbrile e concitato delle 130 nervosissime pagine, più che altro per le inevitabilmente acerbe scelte di regia e la vicenda si segue con meno affanno e agitazione di quanto suggeriva il testo, ma l’affresco è comunque potente, tutt’altro che conciliante o cerchiobottista (alla fine, non “vince” nessuno), giocato sulle allusioni e sul non detto – e in ciò aiuta lo sguardo spiritato ed espressivo di Elena Cotta, che fa il paio con la laidezza e la fisicità dell’ottimo Renato Malfatti -, cui si perdonano anche certe piccole sbavature (le inquadrature “leoniane” con cui si fronteggiano Rosa e Samira). In sintesi, quello della Dante è un notevole esordio che allarga ulteriormente la sfera dei talenti di uno dei nostri più inestimabili patrimoni artistici.
Un altro ritratto di donna ci trasporta dai budelli del profondo Sud Italia ancora più in giù, nell’emisfero australe, scenario dell’anodino Tracks: Curran ritrova lo stile patinato ed innocuo de Il velo dipinto, ma fa ancora peggio decidendo di trasformare la concisione di un avvincente diario di viaggio in un romanzetto rosa per le lettrici di Liala, annacquando il tutto con una stantia parabola di emancipazione e di autoaffermazione più vicina al compiacimento esotico di Vita di Pi o a discutibili percorsi di crescita interiore come 127 ore che all’inarrivabile rapporto con il cosmico e l’universale del modello inconfessato L’inizio del cammino: la traversata di 1700km che l’allora ventenne Robyn Davidson affrontò in pressoché totale solitudine fatta eccezione per quattro cammelli ed il cane Diggity non acquista mai profondità o necessità, non evolve in un confronto con il lato oscuro di sé e con il mondo esterno, assomigliando più ad un’iniziativa sterile ed egoista da cui una protagonista con cui viene particolarmente difficile simpatizzare (complici anche le smorfie e i cachinni di una leziosa, insopportabile Mia Wasikowska) non sembra trarre la minima scoperta e che funge in gran parte da sfondo per annotazioni stravecchie.
Si parte dalla solita invettiva contro l’invadenza dei media, per poi passare attraverso la classica contrapposizione fra gli ottusi e cinici WASP e la purezza del buon “selvaggio”, qui incarnato dall’anziana guida Eddy, una specie di incrocio fra Dersu Uzala e lo Zio Tom, e una insistita visione femminista che non ha neppure il coraggio di andare fino in fondo, visto che, alla fine, la Davidson decide di non infrangere le regole tribali che impongono certi compiti solo ai maschi e il compimento dell’impresa passa anche grazie agli aiuti del fotografo appioppatole dal National Geographic che ha cercato di evitare dall’inizio del viaggio. Manca qualsiasi contestualizzazione storico-sociale (in fin dei conti è il 1977, l’anno del punk, fenomeno che di certo in Australia non è passato inosservato) e non si capisce bene la radice dell’astio della ragazza per la società che la circonda e della sua diffidenza nei confronti del prossimo, e non aiuta nemmeno un approccio alla storia che non lascia niente all’immaginazione o all’intelligenza dello spettatore, che viene traghettato inizialmente da una pedissequa, inutile voce off, chiamato a ricordare aspetti inutili da ripetere (viene suggerito a Robyn di eliminare qualunque esemplare di cammello maschio si avvicini al branco e, quando ciò succede mezz’ora dopo, una voce fuori campo ce lo rammenta) e anticipato nelle soluzioni narrative successive (si scopre che il disagio della ragazza risale alla soppressione forzata dell’amato cane Blondie quando era bambina ed è subito chiaro che cosa accadrà dopo neanche dieci minuti a Diggity). Insomma, chi ragionevolmente si chiedeva cosa si facesse un nome tutt’altro che autoriale come John Curran nella lineup della Mostra di Venezia non avrà la minima sorpresa.
Nel pomeriggio, prende il via anche la Settimana Internazionale della Critica, nuovamente con un cartoon fuori concorso come nel caso del nordico Metropia del 2009: questa volta è un progetto squisitamente nostrano, il partenopeo L’arte della felicità, ad inaugurare la sezione riservata alle opere prime in veste esclusivamente di ospite d’onore.
La scommessa del giovane regista tuttofare Alessandro Rak è essenzialmente una, ovvero dare vita in un panorama caratterizzato dalla naiveté vecchio stile dei Bozzetto prima e dei D’Alò poi ad una forma di cinema d’animazione adulto e sintonizzato sul reale insieme ad un folto stuolo di disegnatori e di musicisti locali. Nessuna atmosfera fiabesca, animali parlanti o mondi fantastici, quindi, per un esordio che parte dai destini paralleli di due fratelli ex-musicisti di Napoli per cercare di scandagliare i dubbi esistenziali e le debolezze di una generazione (e forse di un Paese, se non addirittura di un mondo) destinato all’autodisfacimento. Alfredo e Sergio, rispettivamente violinista e pianista di un fortunato duo jazz giunto ai primi significativi traguardi di carriera, si separano quando il primo annuncia al secondo di volersi lasciare tutto alle spalle per convertirsi al buddismo e chiudersi in un monastero tibetano, lontano dai drammi del mondo materiale; Sergio, però, rinuncia progressivamente all’attività solista per riciclarsi come tassista, ripensando alle occasioni mancate che la vita gli ha offerto in abbondanza e imbastendo conversazioni sui massimi sistemi con i suoi clienti, fra cui lo zio trafficone Luciano, un netturbino che ha saputo convertire la sua discarica in una fucina di opere d’arte contemporanea e un messianico speaker radiofonico che cita l’Apocalisse e il titolo della cui trasmissione coincide con quello del film.
Onore alle intenzioni, certo, specie per le alte ambizioni di un team volto ad affrontare temi non facili e di certo distanti dall’animazione nostrana, rinunciando a soluzioni di comodo o a stereotipi pronti per l’esportazione (Napoli non è il panorama con il Vesuvio e gli spaghetti alla chitarra, ma una piccola metropoli ancora invasa dall’immondizia): peccato però che il tono del film sia sostanzialmente piuttosto pedante e che sfoderi una gragnuola di dialoghi decisamente sentenziosi e didascalici che spesso sfociano nel puro qualunquismo (il disc jockey, nella fattispecie, sembra uscire dritto dritto dal M5S), nella cattiva letteratura – soprattutto gli scambi via Skype fra i due fratelli – e nel citazionismo d’accatto, con una declamazione solitaria a base di “vaffanculo” che imita stancamente l’ormai celebre monologo di Edward Norton ne La 25a ora. E’ un vero peccato, perché le buone intenzioni c’erano tutte e certe riflessioni sulla solitudine dell’Uomo e sul bisogno disperato di una seconda possibilità colgono davvero nel segno e sanno essere addirittura toccanti: forse uno sceneggiatore più esperto avrebbe potuto fare da tramite fra i temi importanti messi sul banco da Rak e la loro applicazione nei margini della narrazione filmica, ma purtroppo così non è stato così, e L’arte della felicità finisce per assomigliare più che altro allo sfondo animato di un vacuo sermone contro i soliti vizi della civiltà di oggi.
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Quando ci si riaffaccia sul Concorso, però, nonostante le rimostranze annoiate delle solite scolaresche in gita d’istruzione travestite da critica specializzata, si ha a che fare – dopo la pellicola-mondo di Edgar Reitz – con un altro cardine della selezione: Die Frau des Polizisten è infatti un sensazionale saggio sul mezzo cinematografico, sui suoi limiti e sulle sue responsabilità, un vero e proprio trattato sulla capacità comunicativa della Settima Arte in’un epoca di false certezze. Preso oggettivamente, il ritorno di Philip Groning dopo la sua fortunata e celebrata sortita documentaristica de Il grande silenzio, sembra la semplice, dilatata cronaca di una disgregazione familiare puntellata da insostenibili episodi di violenza domestica, ma la scelta del cineasta di disgregare la trama e la sua esposizione in una sessantina di micro-episodi sfasati e posti in sequenza secondo un criterio non più cronologico, ma tematico, antitetico o associativo non diverso dall’Haneke del capolavoro 71 frammenti di una cronologia del caso non solo permette di dare un involucro più variegato all’insieme, ma anche di mantenere un livello quasi insostenibile di suspense per tutte le tre ore di durata (a tratti impercettibili, se si accetta di stare al gioco) e di mettere in discussione fino all’ultimo, senza pericolo di contraddizioni o di buchi nel racconto, tutte le convinzioni che lo spettatore si era formato nel corso della visione.
Accade così che un amorevole padre di famiglia sveli di punto in bianco, da una prospettiva diversa, la propria identità di mostro sadico, che i dettagli muti di due corpi nudi intrecciati che sembravano freschi di coito appartenessero in realtà ad una madre e una figlia teneramente abbracciate al riparo dall’orco, che personaggi con un percorso dato per certo siano in realtà destinati ad una fine ben diversa o che particolari praticamente insignificanti acquistino col tempo una valenza profonda, come il rametto sfuocato del primo capitolo o lo sguardo del vecchio nel paesaggio innevato nel terzo, prontamente sbeffeggiati da chi forse si aspettava di farsi una serata di divertimento. Superata la diffidenza iniziale, Die Frau des Polizisten offre tre ore di sovrumana tensione da cui lasciarsi placidamente condurre, affascinare, ipnotizzare e scioccare, imbarcandosi così nell’impresa tutt’altro che facile di tessere le fila intrecciatissime del racconto, ma soprattutto, su modello del Rayuela cortazariano, di trovare un personalissimo itinerario fra i vari episodi del film, che anche solo per questo meriterebbe di essere visto e rivisto.
Una calorosa accoglienza, poi, è stata riservata in serata al veterano William Friedkin, che ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera. Il 78enne regista americano autore di successi indimenticabili da L’esorcista a Il braccio violento della legge e Vivere morire a Los Angeles, passando per il thriller Killer Joe, presentato lo scorso anno proprio qui al Lido, è stato salutato da una vera e propria ovazione quando è salito sul palco. Nella motivazione del premio, Alberto Barbera ha specificato che Friedkin ha manifestato negli anni “una fedeltà rischiosa ai propri ideali che, allontanandolo dal centro del cinema hollywoodiano, lo ha spinto a cercare nel cinema indipendente quella libertà necessaria a perseguire la ricerca di un linguaggio fatto di spiazzamenti continui, di istinto visivo folgorante, visionario, allucinatorio, eppure insaziabilmente affamato di realtà anche quando sembra perdersi nel delirio cinetico, astratto e perfezionistico delle prepotenti sequenze d’azione e d’inseguimento che caratterizzano la sua opera in maniera emblematica. William Friedkin rappresenta ancora oggi l’esempio di un cinema esigente, intellettualmente onesto, emotivamente intenso, programmaticamente avventuroso ed erratico: un antidoto potente e generoso al crescente livellamento del cinema contemporaneo”.
[L’intensa immagine di William Friedkin che potete ammirare in chiusura di post è del nostro bravissimo fotografo inviato al lido Eugenio Boiano]