Terry Gilliam by IndieWire
C’è chi al Lido viene a morire (Miyazaki, che poco sorprendentemente conferma il valore testamentario del suo capolavoro Kaze Tachinu, o Tsai, che annuncia in pompa magna il punto terminale della sua carriera con Jiaoyou) e chi al Lido, inaspettatamente, dopo tanti anni, rinasce: è il caso di Terry Gilliam, che dopo un decennio abbondante di brutta transizione ritorna con The Zero Theorem alla poetica e alle tematiche che gli sono più congeniali, girando una specie di aggiornamento del suo capolavoro Brazil, di cui ritornano la realtà distopica – qui deorwellizzato ma immerso in un’atmosfera caramellosa dove la rete sociale si è estesa a livelli soffocanti – e l’annullamento della coscienza individuale da parte di una paradossale burocrazia.
Protagonista è l’hacker Qohen Leth (un formidabile Christoph Waltz glabro e spettrale che ricorda il Bruce Willis de L’esercito delle 12 scimmie), incaricato dalla Mancom Corporation e dal suo luciferino CEO Management (Matt Damon) di risalire attraverso il mastodontico, irrisolvibile progetto che dà titolo al film alla ragione ultima dell’esistenza – o alla sua negazione: ad accompagnarlo e a sostenerlo nel suo calvario sono la “callgirl biotelemetrica Bainsley (Melanie Thierry), inviatagli dalla stessa Mancom come valvola di sfogo per le sue esigenze fisiologiche, e il geniale stagista Bob (Lucas Hedges), figlio adolescente di Management.
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Nei quasi tre decenni intercorsi fra il clima ghignante e satirico del suo vecchio capolavoro e la realtà di oggi però sembra davvero cambiato tutto, visto che rispetto ad allora il tono si è fatto notevolmente più disperato, cinico e nichilista, nel quale il peggior finale possibile non è un “semplice” lavaggio del cervello che resetta e azzera la volontà del singolo, ma nientemeno che un buco nero capace di inghiottire non solo il cosmo, ma l’esistenza di tutto e addirittura ciò che potrebbe esserci dopo; la possibile, patetica via di fuga c’è ancora, ma questa volta non c’è nessuna iniziativa per inseguirla, ma solo uno sconfortante senso di rassegnazione; laddove il futuro era controllato e addomesticato, qui la speranza è possibile, ma è malata alla radice e assolutamente incurabile.
Al di là del discorso di continuità, Gilliam ha corso molti rischi, affidandosi ad una struttura ai limiti del caotico e del babelico, zeppa di intuizioni visive e di invenzioni, come la grottesca tuta che connette Leth ai “servizi” di Bainsley, i quasi minatori messaggi pubblicitari che inseguono i passanti, la spiaggetta kitsch che rappresenta il più artificiale paradiso possibile per Leth, componenti che non sprofondano mai nell’ipertrofia e nella stucchevolezza, cosa che invece capita nell’ultimo, disastroso film del “nipotino” Michel Gondry e che dimostra in modo insperato il primato rimasto indiscusso del vecchio maestro.
Si passa Fuori Concorso, pur restando nei confini del Regno Unito, con il successivo Locke ed è una sola la domanda che si presenta insistente a fine proiezione: alla luce di una buona manciata di partecipanti inspiegabilmente inseriti nella sezione principale – Tracks e Parkland in testa, cosa ci fa un’opera sorprendente come il debutto alla regia di Steven Knight, una sorta di assurdo ibrido di Uno, due, tre! di Wilder e di Dieci di Kiarostami, fuori non solo dalla selezione maggiore, ma anche da qualsiasi forma di competizione?
[Nota del Caporedattore: sono “casualmente” o “intenzionalmente” recidivi? Questo capolavoro…era Fuori Concorso! ;-)]
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Pellicola forse più originale fra tutti i titoli presentati finora, il primo lungometraggio dell’indimenticato sceneggiatore de La promessa dell’assassino delinea uno dei thriller più avvincenti delle ultime stagioni, specie se si considera non solo che non viene sparato un colpo, non si dà vita ad inseguimenti mozzafiato e non ci sono delitti da risolvere avventurosamente, ma che i 90′ di durata vedono l’unico protagonista delle vicende risolvere tutti i nodi e gli intrighi del plot dall’interno della sua automobile, per di più in tempo pressoché reale.
Il capo squadra edile Ivan Locke (Tom Hardy) si trova infatti alla vigilia del più importante evento della sua attività ma invece di apprestarsi all’inizio dei lavori, deciderà di mettersi in viaggio verso l’ospedale nel quale sta per venire alla luce il figlio concepito con l’avventura di una notte e di risolvere tutte le sue questioni rimaste in sospeso telefonicamente: tali sono il suo dilemma morale e le sue questioni di principio che la sua vita coniugale, la sua brillante carriera e la sua stessa incolumità saranno duramente messe a repentaglio e che gli rimarrà da affrontare una intensa battaglia con il suo più terribile nemico: se stesso.
Venezia 70_Locke_I produttori Stuart Ford e Paul Webster_Il regista Steven Knight, Tom Hardy ed il produttore Guy Heeley - Photo by Eugenio Boiano
Locke, con il suo ritmo forsennato, la sua scrittura pregna e trascinante ricca tanto di dialoghi memorabili (che vanno dalle dolenti confessioni matrimoniali agli esilaranti duetti con l’assistente Donal) quanto di fulminanti one-liner (“non puoi fidarti di Dio, quando si tratta di calcestruzzo”) e di potenti monologhi (le invettive contro il padre assente) che trasformano l’insieme in un lancinante kammerspiel notturno sul senso di responsabilità e sull’accettazione della colpa, con un incredibile Tom Hardy a passare da un registro all’altro con una facilità ed una naturalezza da veterano e una messinscena che sfrutta lo spazio angusto del mezzo con grande gusto espressivo e con infinita perizia, sorretto quanto basta anche dalle musiche discrete del buon Dickon Hinchliffe, ex-chitarrista e arrangiatore orchestrale dei Tindersticks. Non resta che augurare al film, davvero uno dei migliori in termini assoluti di tutta l’edizione, un fortunato percorso in sala.
Nel pomeriggio, è il turno di The Sacrament, un orrendo found footage thriller su un culto religioso suicida degno del catalogo Asylum che conficca ulteriormente nel terreno, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la pietra tombale della decaduta sezione Orizzonti – quest’anno più che mai un autentico cimitero degli elefanti -, e che fa ragionevolmente dubitare dell’onestà intellettuale di certi selezionatori, nonché di certi traduttori, vista la qualità allucinante dei sottotitoli che sembra uscita fuori da Google Translate.
Si fa nuovamente visita alle Giornate degli Autori per assistere alla proiezione, dopo un superfluo cortometraggio animato, dell’atteso ritorno di Daniele Gaglianone in sezione dopo il sonoro tonfo di Ruggine, con il quale l’ottimo cineasta torinese d’adozione aveva fallito l’approdo al circuito autoriale mainstream nostrano: La mia classe, che vanta un budget ridottissimo, affidandosi quindi – protagonista escluso – interamente ad un cast di non professionisti ed ai membri stessi della troupe. Un approccio intelligente e composito, tanto al cinema civile quanto a quello di sfondo scolastico, visto che il canovaccio del progetto gravita intorno al rapporto quotidiano fra un variegato gruppo di immigrati adulti, provenienti perlopiù da zone di guerra e dal terzo mondo ed il loro insegnante di lingua italiana.
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A fare la differenza, sono una buona manciata di scelte registiche e di espedienti di sceneggiatura davvero intriganti, a cominciare da un’impostazione molto libera che sfonda la barriera della docufiction e si immette in territori quasi kiarostamiani, con la realtà che compenetra continuamente nella finzione e viceversa, passando per un clima di improvvisazione generale che acuisce ancor di più la freschezza e l’autenticità dei personaggi, delle loro storie e della loro interazione con la sovrastruttura filmica, e finendo con la presenza nel cast del nostro Valerio Mastandrea nel ruolo dell’insegnante, elemento apparentemente demistificante e falsante, trattandosi di un volto notissimo del nostro cinema, e invece perfettamente integrato – oltre che, come sempre, innegabilmente capace di inarrivabile simpatia – in quanto tramite unico fra l’universo “reale” degli studenti-attori e quello “creativo” del cast tecnico, dove si inserisce, con una notevole dose di onestà e di coraggio, lo stesso Gaglianone.
Ad un’introduzione più leggera e confidenziale, che serve soprattutto a creare una forte connessione fra il pubblico e la classe seguono momenti decisamente più introspettivi dove il regista si mette a confondere le carte e a giocare sull’ambiguità del linguaggio documentaristico (come nell’ultimo film dei Taviani, il dietro le quinte appare paradossalmente più artefatto della recita), portandoci a interrogarci anche sull’effettivo ruolo del cinema a contatto con la responsabilità civile, con le buone intenzioni e le vane promesse a lasciare il posto all’ìmpotenza, se non all’ignavia (il Gaglianone “fittizio” può poco e nulla di fronte ai possibili rimpatri forzati di alcuni membri del cast), come dire che a parole, in fin dei conti, siamo bravi tutti, ma che ci vuole ben altro ad affrontare la realtà.
Semplice, efficace e di grande impatto la parabola che il maestro recita solitario in classe e che, senza cadere nella facile assoluzione generale del problema immigrazione, ci ricorda che la responsabilità di tutto passa anche, se non soprattutto, per il silenzio dei giusti.
Il cast di The Zero Theorem by Terry Gilliam - Photo by Eugenio Boiano
Il cast di The Zero Theorem by Terry Gilliam - Photo by Eugenio Boiano

Si rientra finalmente in Concorso con il nuovo capitolo della filmografia del cineasta israeliano Amos Gitai, tornato al Lido a nove anni dall’infelice partecipazione del quasi invisibile Promised Land e dopo tanti anni di attività extrafestivaliera a cui è mancata la benedizione della distribuzione italiana.

Ana Arabia

Ana Arabia è un’opera singolare e vibrante, tappa totalizzante ed assoluta di uno stile registico fattosi negli anni sempre più contemplativo, dilatato e teorico di cui l’unico piano sequenza di 84′ che racchiude il film è la più esasperata evoluzione possibile: nell’arco di un’unica inquadratura che inizia fra le fronde spoglie di un albero viste dal basso e si conclude letteralmente elevandosi al cielo, Gitai ci illustra la visita della giovane giornalista Yael ad un quasi fatiscente caseggiato della periferia di Jaffa, dove spera di raccogliere informazioni e cenni biografici su una matriarca locale recentemente deceduta, una donna ebrea sopravvissuta alla Shoah, convertitasi all’Islam e sposatasi col palestinese Youssef, che oggi, ormai anziano, la ricorda e ne tiene in vita la piccola, straordinaria memoria insieme a parenti e discendenti.

Oltre all’evidente traguardo tecnico, totale ma mai compiaciuto e alla ricerca di facili effetti, ma anzi capace di prendersi i suoi tempi con lunghe inquadrature fisse, la scelta di Gitai si rivela azzeccata e funzionale, conferendo all’insieme l’aspetto di un dramma a stazioni attraverso il quale la ragazza viene a conoscenza di un elegiaco ed isolato mondo di pace dove l’identità araba e quella ebraica si compenetrano e si completano in totale armonia, in un paradiso di catapecchie dove il tempo pare essersi fermato, ammesso che sia mai esistito.

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Sorta di Arca russa sottoproletaria nel mondo delle baraccopoli, Ana Arabia si regge sul potere dell’evocazione e della malinconia, lasciandoci solo intuire, con piccoli tasselli biografici disposti come capita una vita colma di passione e di eventi, tramandati con la sensibilità del mito e della leggenda, in una celebrazione nostalgica della tradizione orale.

Forse più vicino, gigantismo a parte, al cinema di Angelopoulos che a quello di Gitai, Ana Arabia ci restituisce una delle voci più limpide del mondo artistico israeliano che pare essere tornato ad amare e a credere nei suoi personaggi, a ripartire da quell’Utopia sociale che il microcosmo di cui quelle squallide casette di Jaffa può davvero essere ancora una volta l’inizio.

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