Dopo tanto cinema del passato (le reminiscenze di Ana Arabia, l’analisi storica di The Unknown Known, l’epopea di Die andere Heimat) e del futuro (la distopia di The Zero Theorem, lo spazio di Gravity), del surreale (l’astrattismo di Under the Skin, il cubismo masturbatorio di Algunas Chicas) e dell’iperreale (la cristologia di Child of God, la cosmogonia contemporanea di Miss Violence), piomba all’interno della 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il cinema del presente: ad aprire la giornata, rigorosamente fuori concorso, è infatti Ukraina ne Bordel’, l’annunciato reportage “dall’interno” del movimento Femen da parte della filmmaker australiana Kitty Green, che nel 2010 cominciò a seguire attivamente, a documentare fotograficamente e a diffondere in tutto il mondo le performance delle cattive ragazze d’Ucraina. Presentata così, l’operazione della Green presupporrebbe un prevedibile, furbo tono agiografico e propagandistico, ma i fatti presentano tutto un altro film: si documentano sì i buoni propositi e la contagiosa passione dei membri del collettivo, descrivendo gli argomenti e i bersagli delle loro proteste e delle loro invettive, ma ciò che ne esce davvero è l’immagine assolutamente impietosa e non celebrativa del gruppo, prigioniero delle proprie contraddizioni e dei propri paradossi che ne hanno in parte minato la credibilità anche fra le attiviste stesse.
Si dà quindi voce tanto alle voci più sincere ed irriducibili (la fondatrice Anna Hutsol, l’anima riformatrice del gruppo Inna Schevchenko), quanto le voci più critiche (fra cui la giunonica, e quindi non conforme agli inevitabili standard estetici del gruppo, Aleksandra Nemchinova) e si tenta di fare luce sugli aspetti più controversi che animano Femen e che sono in gran parte rappresentati dall’irrisolta sindrome di Stoccolma nei confronti del suo ideologo e presunto co-fondatore Viktor Svyatskiy, patriarca di un movimento antipatriarcale che si paragona al borghese antiborghese Marx che il film smaschera come una specie di versione laida e farneticante del nostro Roberto Casaleggio.
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Al di là del semplice contenuto, poi, Ukraina ne Bordel’ avvince anche sul piano puramente filmico e cinematico, con la sua intelligente costruzione a episodi che si fa di volta in volta sempre più drammatica (e che culmina con la fallimentare, traumatica esperienza in Bielorussia, dove finì sequestrata dalla polizia anche la stessa Green), i suoi passaggi intimisti (coi dilemmi di Inna, indecisa se immolarsi con la pena detentiva o fuggire a Parigi, dove porre le nuove basi di Femen) e una notevole concisione (un’ora e un quarto appena la durata) che però non sacrifica nulla e che davvero ci dice tutto ciò che volevamo sapere, fuori dalla distorsione massmediatica, sull’identità del collettivo.
Delusione cocente, invece, per gli estimatori di uno dei nomi più onorevoli e intoccabili del nostro cinema, che conferma e per certi versi esaspera i dubbi e le titubanze iniziali: L’intrepido non è, infatti, “la prima commedia di Gianni Amelio” che tanti uffici stampa hanno presentato, ma il tentativo – assolutamente fallimentare – di coniugare la disamina sociale e neo-neorealista del regista de Il ladro di bambini all’ambito della favola allegorica, trasformando in allusioni e simboli le tematiche e i contesti che nell’opera del cineasta calabrese erano da sempre affrontati con l’occhio rigoroso del documentarista: dopo l’avventura in terra cinese del capolavoro mancato La stella che non c’è e l’ignorata divagazione autobiografica dello splendido Il primo uomo, Amelio non solo torna in Italia, ma ritrova quella dolente ed esausta Milano che era stata trent’anni fa teatro delle vicende dell’eccellente esordio Colpire al cuore. che nel frattempo si è lasciata alle spalle la tensione degli Anni di Piombo ed è oggi avvolta da una cappa di letale disperazione ai limiti dell’epidemia.
L’intrepido del titolo è Antonio Pane (Antonio Albanese), cinquantenne che si tiene a galla nella stagnante Italia di oggi con la paradossale zattera di salvataggio del “rimpiazzismo”, sorta di precariato all’ultimo stadio che lo vede dedicarsi di giorno in giorno ad una professione manuale specifica per poi, a volte nell’arco delle medesime ventiquattro ore, passare a quella successiva, prendendo il posto di un lavoratore costretto dalle circostanze ad assentarsi momentaneamente dal lavoro: Pane si ritrova così a costruire palazzi, a consegnare pizze, a intrattenere bambini in un centro commerciale e pure a vendere rose al ristorante per tenere a galla la vita del figlio musicista Ivo (un notevole Gabriele Rendina, esordiente) e la propria, senza mai opporre resistenza e anzi sfoggiando un sommesso sorriso di rassegnazione.
Poteva uscirne una bella parabola sottoproletaria su un Paese allo sbando e sulle responsabilità di due generazioni costrette a farsi l’elemosina a vicenda, ma Amelio non è Kaurismaki, il film sembra, a tratti, un Nuvole in viaggio col manuale di istruzioni e, soprattutto, non ne possiede la miracolosa leggerezza ed il tocco gentile, finendo per appesantire l’insieme con l’esigenza di spiegare e di contestualizzare tutto (a differenza della libertà e della soavità dell’autore finlandese), tanto i personaggi – soprattutto l’inquieta Lucia (Livia Rossi), emblema di un’Italia giovane costretta all’estinzione – quanto i contesti, come l’ufficio-palestra da cui un laido trafficone (Alfonso Santagata) gli rimedia i lavori o lo spaccio di protesi in esubero riciclate ai paesi africani gestito da un oscuro bauscia, senza risparmiare nemmeno i dialoghi, figurativi e sentenziosi (“tenere in mano un libro è sempre speciale” e succedanei).
Ne risulta un’opera davvero pedante, artificiosa e fasulla, dove non si salva neanche il trasformismo di Albanese (che al cinema, va detto, specie impiegato in un ruolo drammatico, stenta sempre a funzionare e di certo non trasmette il malessere cosmico di un Bill Murray) e che si risveglia di punto in bianco soltanto nel bel finale in piano sequenza, unico sussulto del vecchio maestro, che si spera vivamente possa tornare sui suoi passi e tornare alle atmosfere e, soprattutto, al linguaggio che più gli è congeniale.
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E’ il turno, poi, rigorosamente fuori concorso, della seconda opera-monstre di tutto il programma, che restituisce al Lido nella sua forma migliore e nella sua ulteriore evoluzione uno dei grandi comunicatori visivi del nostro secolo: il cinese Wang Bing, alfiere di un cinema davvero antagonista, analitico e sintonizzato sul vero, presenta lo sterminato Feng ai (Follia e amore), occhio diretto e senza sovrastrutture della vita quotidiana all’interno di un allucinante manicomio della provincia dello Yunnan, domicilio di decine e decine di uomini (criminali di varia estrazione, certo, ma soprattutto gente comune ritenuta a vario titolo “pericolosa” dal regime di Pechino) condannati a una squallida, disumana reclusione fra abusi, degradazioni e abissi, ma anche capaci di trovare quel misero attimo di pace e di amore nell’inferno della cella.
Bing, come al solito, si prende il suo tempo, vaga per lo spettrale corridoio esterno che connette le varie stanze, seguendone di volta in volta gli ospiti e studiando i loro comportamenti, le loro abitudini, i loro tormenti e le loro manie, raffigurando un’autentica, ineludibile bolgia infernale dai connotati terribilmente concreti ed umani nella quale si alternano infiniti silenzi, vaneggiamenti, urla e ricordi; poi, però, a partire dalla seconda ora, il documentarista si lascia prendere dall’idea di fare del suo affresco una colossale galleria umana fatta di storie e di ritratti, concentrandosi ora su un detenuto e ora su un altro, dando prova di una vocazione narrativa che nemmeno il suo meraviglioso debutto nella fiction Jiabiangou (il concorrente più memorabile di Venezia 67) lasciava presagire.
Assistiamo così senza tregua ai lamenti viscerali e irrefrenabili di Chen Zhuanyuan, disperato al pensiero di perdere il compagno di cella Liu Rong, salvo poi scoprire che i due non si conoscevano affatto e che il primo era stato appena internato, alle passeggiate indisturbate di Mao Liangmeng (il “Gatto”), che si aggira nudo e fantasmatico per l’istituto come se nulla fosse, all’inutile, dissipato rilascio provvisorio di Zhu Xiaoyan, che dietro uno stato apparentemente più lucido degli altri, usa i pochi giorni a disposizione di nuovo in famiglia e fuori dalla bolgia giacendo sul divano in silenzio o camminando senza meta dall’alba al tramonto, fino all'”episodio” forse più struggente di tutti, cioè la tenera “relazione” fra il dissociato Pu Chengyi e Li Chengqiao, ospite del reparto femminile al piano di sotto, che in una laconica notte di Capodanno con tanto di fuochi artificiali sullo sfondo interagiscono fra frasi smancerose, vezzeggiativi stucchevoli ed espliciti inviti sessuali come due adolescenti in amore.
Ancora una volta, quindi, il poeta del quotidiano che dieci anni fa esordì con le quasi dieci ore de Il distretto di Tiexi ci fa dono di un’incredibile testimonianza che fa piazza pulita di gran parte delle opere di finzione viste finora e che rappresenta, nell’anno del Future Reloaded, uno degli alfieri più indispensabili di un cinema proiettato verso l’avvenire.
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