Parte dalle sponde africane del Mediterraneo l’ultima giornata della 70a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dedicata al Concorso mentre i primi azzardati pronostici di pubblico e critica tentano di scandagliare le possibili preferenze della variegata giuria guidata da Bernardo Bertolucci: non cambierà di molto la situazione di questo Es-stouh, ultima fatica del misconosciuto veterano algerino Merzak Allouache, esordiente lidense e presenza ricorrente e fortunata di Cannes, dove vinse il premio Fipresci nel 1994 con Bab El-Oued City e l’Europa Cinemas Label (l’equivalente delle nostre Giornate degli Autori) solo l’anno scorso con El Taaib.
Le cinque terrazze del titolo fungono, nell’arco di 24 ore scandite dalle cinque preghiere giornaliere della liturgia islamica, da teatro, contesto sociale e compendiario antropologico della variegata società tunisina e dei suoi abitanti: la prima è la “sala prove” di una band etno-rock la cui leader intrattiene una relazione lesbica clandestina con la dirimpettaia, la seconda è la camera delle torture di un piccolo boss locale visitato improvvidamente da una piccola troupe cinematografica, la terza è la residenza abusiva di un giovane tossicodipendente e della sua poverissima famiglia, la quarta è la prigione di un ex-gangster che, tenuto rinchiuso dentro una specie di cuccia, fa da cantastorie alla propria curiosa nipotina, mentre la quinta è la “sala ricevimenti” di un sottomesso galoppino che ospita, fra gli altri, una sorta di manesco esorcista sessuale e banchetti nuziali assortiti.
Il modello di Gomorra – rintracciabile nella seconda storia, ma anche più in generale nella struttura stessa del film in toto – non sembra essere passato invano, ma c’è anche spazio per altre citazioni assortite (la band della prima storia sembra venire dritta dall’iraniano I gatti persiani, mentre il protagonista della quinta è una specie di versione sottoproletaria del C.C. Baxter de L’appartamento di Wilder) e ne esce un ritratto decisamente impietoso, fra minoranze destinate al collasso e cruente guerre tra poverissimi: niente di straordinariamente originale, per carità, le storie – di per sé non coinvolgentissime – procedono tutte frettolosamente (complice la scarsa durata) verso uno scioglimento più melodrammatico del tono che gli si vorrebbe dare e per essere una “scoperta” del Concorso ci si poteva aspettare qualcosa di più; però va bene così, e sii tratta di certo di qualcosa di ben più interessante dell’altra pellicola “corale” del Concorso, l’inspiegabile Parkland.
Dopo essere passati fuggevolmente per la Settimana della Critica con l’atteso Återträffen, una sorta di versione concettuale e metafilmica del verdoniano Compagni di scuola passato per le mani di Thomas Vinterberg che sancisce il debutto alla regia dell’artista performativa Anna Odell (“la Marina Abramovic scandinava”), si chiude il sipario sulla competizione con Jiaoyou, il film testamentario del taiwanese Tsai Ming-Liang: difficile giudicare l’onestà intellettuale delle sue provocazioni, che dai tempi del trionfo veneziano di Vive l’Amour si sono fatte stracche e straviste: Jiaoyou sembra infatti rimasto aggrappato a quel periodo della sua carriera che oggi, tra Far East Film Festival e due decenni abbondanti di (ri)scoperta del cinema orientale di frontiera, ha perso la sua unicità, la sua originalità e la sua urgenza.
La trama, al solito pretestuosa, gravita attorno alla vita di espedienti che un padre e i suoi due figli piccoli portano stancamente avanti fermandosi fra le palazzine abbandonate di Taipei, ma il tutto è – ancor più del solito – reso con scelte registiche indisponenti e pretenziose, fra infiniti silenzi (e fin qui niente di terribile), sviluppi narrativi inesistenti e frustranti inquadrature fisse sul nulla che mirano solo a minare la pazienza di qualunque spettatore: oltre cinque minuti di primo piano con sguardo in camera su un uomo che consuma avidamente una coscia di pollo, quasi dieci minuti in cui il medesimo personaggio infierisce su un povero cavolo truccato da donna (sic), prima tentando di soffocarlo con il cuscino (sic!) e poi azzannandolo violentemente fra le lacrime e un quarto d’ora abbondante sul volto dei due protagonisti mentre fissano il medesimo murale di cui sopra sono soltanto una selezione limitata dei 138 ipnotici ma sfibranti minuti della pellicola in cui non resta nulla del rigore antonioniano e dello scavo sentimentale delle opere precedenti, ma soltanto tanta furbizia e tanto cinismo per colmare un discorso autoriale già morto che, verdetti permettendo, fortunatamente lo stesso Tsai si deciderà a seppellire una volta per tutte.
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