Un paio di evidenti peculiarità potrebbero portare lo spettatore medio a valutare superficialmente The Grandmaster, l’ultima fatica di Wong Kar-wai distante ormai un lustro da Ashes of Time Redux, e già presentato, fuori concorso, alla scorsa Berlinale, di cui il regista di Hong Kong (ma nato a Shanghai nel 1958) era presidente della giuria. La prima riguarda l’adesione del film al filone del kung fu movie (meglio definito “gongfu pian”), considerato a lungo da noi perlopiù come uno dei tormentoni in voga tra le tante “stranezze” degli anni Settanta, ovvero un colorato sottogenere legato a un sodalizio di beceri “spaccatori di mattoncini”. La seconda attiene al calligrafismo che caratterizza le opere di questo tipo, e che elegge l’autore di In the Mood for Love e 2046 come uno dei massimi esponenti.
The Grandmaster – nelle sale dal 19 settembre – è un raffinato affresco che si dipana sul fondale della storia cinese del Novecento, dalla rivoluzione repubblicana (1911-1912) che pose fine all’ultima dinastia imperiale, all’invasione e alla progressiva conquista nipponica degli anni Trenta, dalla resa del Giappone alla fine del secondo conflitto mondiale, alla guerra civile conclusasi nel 1949 con l’affermazione di Mao sui nazionalisti di Chiang Kai-shek. L’ultima parte è ambientata a Hong Kong, allora colonia britannica, rifugio dei nazionalisti che non seguirono a Formosa (oggi più nota come Taiwan) il loro leader in fuga.
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Ma The Grandmaster è anche un’avvincente biografia in cui il protagonista, Ip Man (Tony Leung, volto ricorrente del cinema orientale) vive agiatamente, con la sua bella famiglia, a Foshan, nel sud della Cina, dove pratica il kung fu di scuola Wing Chun con infinita passione e come filosofia di vita, frequentando, come impone la consuetudine, il Padiglione d’Oro, un elegante bordello dove si riuniscono i cultori delle arti marziali. Nel 1936, dopo la penetrazione giapponese in Manciuria, il Grande Maestro Gong Baosen (Qingxiang Wang), creatore dello stile Bagua, è costretto a trasferirsi a Foshan dove intende annunciare il proprio ritiro. Viene ivi raggiunto da Gong Er (Ziyi Zhang), la figlia a cui ha insegnato “la tecnica delle 64 mani”. La cerimonia di commiato prevede una straordinaria esibizione di scherma corporea e dei “saperi” appresi dai maestri dei due stili citati. Perfino l’incontro tra Ip Man e Gong Er non si risolve solo in una sfida tra artisti marziali.
Di lì a poco l’ambizioso e infido Ma San (Jin Zhang), che aspira a raccogliere l’eredità della casata Gong, uccide a tradimento il Grande Maestro, devastando la vita, e suscitando il desiderio di vendetta della figlia. Dopo l’occupazione di Foshan e la distruzione della sua casa da parte dei soldati del Sol Levante, Ip Man vive in miseria per lunghi anni prima che il regime comunista (questo il film non lo dice esplicitamente) lo costringa all’esilio a Hong Kong. Lì, negli anni Cinquanta, ritrova Gong Er, estenuata dalle vicissitudini personali e ancor più dalla “deriva del mondo”; e sempre nella florida città portuale l’illustre maestro di Wing Chun aprirà una seguitissima scuola di kung fu devotamente frequentata anche dal mitico Bruce Lee, allora adolescente.
La drammatizzazione comprende anche altri personaggi, come “Il Rasoio” (Chang Chen), spietato combattente di kung fu, nonché misterioso affiliato alla polizia segreta nazionalista, anch’egli emigrato a Hong Kong, che però non trova, come altre figure di contorno, un’adeguata caratterizzazione per via di un montaggio che ha di fatto dimezzato la pellicola (almeno quattro ore la durata originale) penalizzando da un lato la fluidità del racconto, e dall’altro trascurando svariati passaggi a danno della piena comprensibilità dell’intreccio. Così, ed è il limite più manifesto, l’opera procede perlopiù come un assemblaggio di scene notevoli collegate da una voce off che scandisce tempi e luoghi della rappresentazione.
Se, dunque, da un lato dovremo attendere l’uscita in dvd della versione originale del film per giudicare al meglio la coerenza, la scorrevolezza e la completezza della narrazione, dall’altro si rimane estasiati dalle scenografie (tra tutte spicca il Golden Pavillon), dalle sequenze di pura poesia visiva come quella del funerale nella neve di Gong Baosen, o dal combattimento di Ip Man sotto la pioggia scrosciante all’incipit del film. Il fascino delle coreografie ci induce, inoltre, a tessere le lodi di Yuen Wo Ping, il quale ci aveva già deliziato in Matrix, Kill Bill, e La tigre e il dragone con la musicalità del movimento. La lotta si trasforma allora in una danza e Wong Kar-way se ne giova per mostrarne la violenza, sublimandola in un’ammirevole esibizione d’arte.
È questa la cifra stilistica del regista cinese; non si può rimanere indifferenti alla meraviglia della messinscena, e anche a un certo compiacimento estetizzante delle immagini, tuttavia The Grandmaster offre, nella forma di un melodramma epico, una notevole quantità di spunti tematici, dal conflitto (reale e filosofico) tra due diverse scuole di pensiero e di combattimento, al dilemma tipico delle arti marziali, che si interroga se il vincitore sia semplicemente “l’ultimo uomo che resta in piedi”, affrontando al contempo riflessioni sulla guerra, la famiglia, la vendetta, il desiderio, l’amore e la memoria. Ma specialmente, l’opera è un’elegia nostalgica sul rimpianto, sull’ineluttabilità del fato, sul tempo che fugge troppo in fretta, una sorta di requiem per un’epoca al tramonto.
Ecco il senso del tributo finale al cinema di Sergio Leone. Il pathos delle ultime scene è amplificato dalla riproduzione dello struggente, e tanto celebrato, tema di Deborah da C’era una volta in America. Ma altri classici percorrono la visione, dalla Norma belliniana alla splendida melodia dello Stabat Mater di Stefano Lentini, che commenta la scena più bella del film al Golden Pavillon (dove avviene il confronto tra la fascinosa Gong Er e il maestro Ip Man) inebriandola della musica e dei versi latino-medievali di Iacopone da Todi cantati dal soprano spagnolo Sandra Pastrana: una sequenza assolutamente straordinaria, che riscatta i numerosi difetti del film, e che da sola vale il costo del biglietto. Stefano Lentini (Roma, 1974), le cui realizzazioni han già destato enorme interesse, appartiene alla nuova generazione di compositori italiani di musica da film, e in questa occasione ha egregiamente dimostrato di potersi affermare come il degno successore di Rota, Piovani e Morricone. Staremo a vedere. E ad ascoltare…
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