E’ stato fortissimo, se non addirittura frastornante, l’impatto con l’apertura ufficiale della settantesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: prima dell’inaugurazione e con gli inevitabili piccoli ritardi d’assestamento del caso, nelle sale del lido è tornato il 3D ma questa volta non si è avuto a che fare né con guitti di casa Mediaset né con mostruose creature marine di quart’ordine affamate di carne umana, bensì con una pellicola che, nel corso dei suoi cinque pioneristici anni di preparazione e produzione, si è annunciata come l’avveniristica nuova pietra di paragone del mezzo e come l’esperienza visiva che finalmente avrebbe sottoposto agli occhi degli spettatori del Lido l’apice espressivo della tecnica tridimensionale.
Gravity di Alfonso Cuaron è, a tutti gli effetti, un’autentica gioia per gli occhi, il giusto ed appagante compimento di un lustro di scrupolosa, quando non maniacale, ricerca e di tormentatissimo studio, volto ad infrangere le barriere delle modalità di ripresa. Non ce ne voglia il diligente cineasta messicano rivelatosi proprio a Venezia con lo scoppiettante Y tu mama también, ma ben più che un saggio di regia o una sceneggiatura di ferro, Gravity è soprattutto l’apoteosi artistica del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, poeta del piano sequenza proteso costantemente verso l’universale.
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Pressoché nello stesso modo con cui l’Occhio della tarda stagione di Terrence Malick arricchì e nobilitò la precedente opera di Cuaron, il fantascientifico Children of Men (non a caso Premio per il Miglior Contributo Tecnico a Venezia 63), una semplice e comunque affascinante parabola cosmica sul superamento e l’elaborazione del lutto con al centro le travolgenti e solitarie disavventure astrali, pressoché in tempo reale, dell’ingegnere biomedico Ryan Stone (Sandra Bullock) si trasforma in un trattato sul movimento, sulla prospettiva e sull’ambiente scenico, dove una macchina da presa che pare capace di tutto si aggira in assenza di gravità in uno spazio profondo mai così credibile e si dilunga in piani sequenza ipnotici e al limite del possibile, a cominciare dai primi 17 minuti senza stacchi, durante i quali la stazione orbitante teatro iniziale delle vicende evolve da particella infinitesimale a imponente sfondo per girotondi intorno alla galassia.
Lubezki, però, non si ferma qui e costruisce, a differenza dei due essenzialmente isolati momenti clou di Children of Men, l’intero apparato visivo del film sulla dilatazione e sullo stupore, con interventi di montaggio sparuti e un uso praticamente ubiquo della panoramica e della steadicam; laddove il film raggiunge vette impensabili sotto il profilo tecnico, non altrettanto si può dire della sostanza, che sconta uno sviluppo fin troppo schematico – specie nella sezione centrale, con la sua episodica sequela di incidenti concatenati – e un apparato simbolico un po’ facilone a base di metaforici cordoni ombelicali che frenano le fughe della protagonista e un percorso di espiazione mistica che culmina in una rinascita amniotica con l’ammaraggio della capsula in una distesa oceanica incontaminata.
Un involucro stupefacente, insomma, per una sostanza un po’ risaputa e decisamente canonica.
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