Zoran Il mio nipote scemoPresentato alla XXVIII Settimana Internazionale della Critica di Venezia, “Zoran” è l’opera prima di Matteo Oleotto, giovane cineasta nato a Gorizia. Pellicola di chiara impronta regionalista, in cui si cantano – letteralmente, vista la partecipazione di un autentico coro polifonico – le lodi dei vini friulani e si descrivono vizi e virtù degli abitanti di un paesino del Friuli.

Protagonista indiscusso della vicenda è il bilioso, egoista, scontroso Paolo (l’immenso Giuseppe Battiston), che lavora in una mensa per anziani verso i quali ostenta disprezzo, avvelenato com’è dallo stato fallimentare in cui è sprofondata la sua vita: la moglie Stefania (Marjuta Slamič) l’ha lasciato non potendo più sopportarne il caratteraccio, e ora sta con Alfio (un misurato Roberto Citran), che è altresì presidente della cooperativa che gestisce la mensa dove lavora Paolo.

L’evento che spariglia il destino dei nostri eroi, alla stregua delle carte da gioco che immancabilmente accompagnano le quotidiane bevute degli stessi, è la scoperta che Anna, una lontana parente slovena di Paolo, è morta lasciandogli in affidamento Zoran, 15 anni di timidezza e di imbranataggine grande almeno quanto gli occhialoni che porta.

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Dopo l’esilarante sequenza in cui Paolo, illudendosi di essere sul punto di ereditare una fortuna, finge di commuoversi per la scomparsa di un’Anna di cui nemmeno ricordava l’esistenza, vediamo instaurarsi tra i due un rapporto palesemente asimmetrico: all’opportunismo dell’adulto fa da contraltare la lealtà dell’adolescente, che cerca di adeguarsi allo stile di vita dissennato del primo, almeno finché non trova la sua strada, tra passione per il canto e primi amori…

A questo punto il finto zio vede crollare ogni alibi per il suo egoismo e, dopo una violenta crisi alcolico-psicologica, intravede una speranza di riscatto nell’embrione di famiglia che il fato gli ha consegnato.

Il personaggio di Zoran è mirabilmente interpretato dal giovanissimo Rok Prašnikar, che – come confidato dal regista – non conosce una parola di italiano ma, con grande abilità, ha imparato a memoria le battute del copione restituendole con grande efficacia.

Dal canto suo, Battiston offre l’ennesima grande prova d’attore, dando credibilità e sostanza ad un personaggio già ben disegnato da Oleotto e dagli altri co-sceneggiatori. Il suo Paolo Bressan è uno dei tanti sbandati che popolano una delle tante province d’Italia, ma ben caratterizzato territorialmente: tifoso dell’Udinese dedito al vino al punto da sostenere che esiste una decisiva differenza tra lui, onesto e convinto alcolista, e un suo amico, alcolizzato che non riesce a trovare la forza per smettere di bere. Entrambi frequentano, di necessità, la bettola di Gustino (l’ottimo caratterista Teco Celio) che però non è vista come luogo di perdizione ma, al contrario, come “luogo di scambio e di crescita, un luogo dove incontrare amici e possibili partner. È il luogo del confronto, del dibattito, dello scambio e perché no, del business, sempre però accompagnato da un buon bicchiere di vino” (così Oleotto descrive le “osmize” slovene, dove si trovano esclusivamente prodotti realizzati in casa: vino, uova, grappa, formaggi e salumi).

Zoran il mio nipote scemo_Giuseppe Battiston e Rok Presnikar
Zoran il mio nipote scemo_Giuseppe Battiston e Rok Presnikar

Vale la pena riportare la premessa da cui è partito il regista: “Un tempo pensavo che in un paese non accadesse nulla d’interessante e che solo la città potesse essere un luogo vitale. Oggi ho capito che la città può raffreddare e inibire il contatto: le persone hanno modo di nascondersi, di confondersi, di perdersi. In un paese questo non accade. Le dimensioni di un piccolo centro di provincia costringono a partecipare alla vita di tutti, che lo si voglia o meno: impossibile sottrarsi all’attenzione della collettività, impossibile nascondersi, impossibile perdersi di vista. Centro nevralgico di queste dinamiche è, in una terra come la mia, l’osteria, dove si incrociano volti, informazioni, esistenze, frustrazioni, passioni. L’osteria vista come palcoscenico che accoglie professionisti e attori allo sbaraglio, come luogo in cui ci si rifugia per sollevare questioni e da cui si esce senza aver avuto delle risposte”.

In conclusione, quindi, è d’uopo citare almeno una delle strofe cantate in omaggio al nettare divino: “Il vin fa alegria, l’acqua xè il funeral; chi lassa il vin friulan, xè proprio un fiol d’un can”.

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