A distanza di un anno dal Viaggio inaspettato, la compagnia composta da Bilbo Baggins (Martin Freeman), Gandalf il Grigio (Ian McKellen) e il manipolo di nani guidati da Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) prosegue la sua avventurosa odissea alla volta di Erebor, dove si troverà a dover fare i conti con il temutissimo drago Smaug, a cui un eccezionale Benedict Cumberbatch (Sherlock, Star Trek – Into Darkness) regala voce e movenze. Prima di arrivare alla resa dei conti però, i nostri avranno modo di imbattersi in creature di varia forma e natura come i malvagi orchi di Sauron, alcuni elfi dei boschi molto meno collaborativi di come li ricordavamo e perfino una sorta di “orso mannaro”.
Sin dalle prime sequenze, risulta evidente come, superate le lungaggini introduttive del primo capitolo, l’azione trovi finalmente libero sfogo in un secondo atto che – in maniera non dissimile da quanto accadeva ne Le due torri – garantisce movimento continuo per tutte le sue due ore e quaranta minuti di durata. Lo spettacolo (e che spettacolo!) è quindi assicurato.
Permangono piuttosto le perplessità, già espresse in occasione dell’uscita del primo film, sulla scelta di spalmare una traccia narrativa esile come quella de Lo Hobbit – che, lo ricordiamo, è tutto sommato un libricino – in tre film di quasi tre ore ciascuno. I tolkeniani più ortodossi potrebbero obiettare che un corpus imponente come quello della Trilogia dell’Anello avesse, per forza di cose, bisogno di un prequel adeguato, ma la verità è che quegli stessi tolkeniani, di fronte a operazioni del genere, tendono a perdere buona parte della loro lucidità critica. L’impressione, in buona sostanza, è che i fan darebbero via un braccio anche solo per una sitcom, se questa fosse ambientata nella Terra di Mezzo e non sono minimamente scalfiti dal dubbio che, alla base dell’intera operazione, ci siano delle mere esigenze di mercato. E forse è anche giusto così.
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Però. C’è un però.
C’è che la valutazione di un film come La desolazione di Smaug non può – e forse non deve – limitarsi ad un’analisi dei suoi aspetti strettamente narrativi. Perché se è vero che, per molti versi, i limiti drammaturgici della matrice letteraria iniziano a farsi sentire, Peter Jackson – che al momento è, insieme a Guillermo Del Toro, l’autore cinematografico più completo in circolazione – è molto bravo a nasconderli (o a cercare di farlo) sotto una coltre di perfezione tecnica e di effetti speciali che lasciano letteralmente di stucco.
La conferma dei 48 fotogrammi al secondo, applicata ad un 3D di rara efficacia, rende la visione de La desolazione di Smaug qualcosa di molto più vicino ad un’esperienza sensoriale che non alla semplice visione di un film. Questa tecnologia potrà anche non convincere appieno per la sua tendenza ad un iperrealismo che, di fatto, annulla la classica (bi)dimensione squisitamente cinematografica – e quindi anche irreale – di un film, arrivando a ridimensionare anche il valore della fotografia ad esempio, ma l’impressione di trovarsi fisicamente ai piedi della Montagna Solitaria o nelle fauci di un drago in una sorta di “spettacolo dal vivo” è davvero straordinaria e va ben oltre il semplice concetto di sospensione dell’incredulità.
Il problema semmai è che il film è assai lungo e, dopo un’ora buona di 48 fps, ti abitui anche a quello. Ciò che rimane, a quel punto, è la più classica delle storie, fatta di eroi buoni (resi leggermente meno buoni dalla presenza latente dell’Anello) e mostri cattivi. Un po’ poco no? Alla luce di quanto detto finora, abbiamo deciso di optare per due valutazioni, perfettamente scisse una dall’altra.
Voto al film 6
Voto tecnico 9
[Thanks, Movielicious!]
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