Capitan Harlock 3D_locandinaIn un lontano futuro, o forse in un remoto passato, la razza umana ha lasciato la sua culla espandendosi nella Via Lattea. Nonostante i vari tentativi, nessuno dei mondi colonizzati è potuto divenire la seconda patria dell’Uomo: ciò ha provocato un terribile conflitto quando le centinaia di miliardi di esseri umani sparpagliati per il cosmo hanno cercato di ritornare sul pianeta azzurro. La Terra è stata, quindi, trasformata in santuario inviolabile dalla macroscopica entità amministrativa e militare Gaia Sanction, entità combattuta dal centenario pirata Capitan Harlock!

Con cinque anni di produzione e trenta milioni di yen, la cifra più alta mai investita dalla venerabile Toei (somma quasi risibile se confrontata ai prodotti Pixar) Capitan Harlock, opera più riuscita di Leiji Matsumoto (Noto in Italia per Danguard, Galaxy Express 999 è la versione americana dell’odissea della Yamato siderale) è visivamente impressionante e tecnicamente dettagliatissimo, dai vasti e lugubri interni della rinnovata e poderosissima Arcadia della nostra giovinezza alle schiere impotenti di navi federali (tutte identiche e come vuole il loro ruolo immobili e fragilissime) all’ascensore orbitale marziano alle superarmi planetarie mosse da quel tecnobabble di trekkiana memoria aggiornato con elementi modernissimi e arcani di quantum computing, teoria delle stringhe e materia oscura.

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Il capitano è una figura titanica, colossale che sullo sfondo si staglia sugli altri personaggi, imponendo loro delle scelte morali dalle ripercussioni enormi: più una leggenda vivente che un essere in carne ed ossa. Ma oltre l’apparenza di un recupero integrale della versione anni ’70, questo Harlock risulta più un uomo che un astratta ed immobile metafora della Libertà: forse fallibile, dubbioso delle proprie scelte persino ed in qualche modo fragile. Attorno a lui, come satelliti, si muovono i comprimari, costruiti usando tutti gli stilemi dell’animazione giapponese tanto da risultare sin troppo semplice alla prima occhiata riconoscere gli ovvi vincoli di sangue e persino i destini dei personaggi.

Quindi questo Capitan Harlock del ventunesimo secolo funziona, soddisfa? Riesce nel compito di rinverdire i fasti di questa figura solitaria e malinconica?

Se l’immagine del Pirata Nero, ricreata brillantemente grazie al sapiente utilizzo di facial capture, ingranato nostalgicamente nella nostra infanzia riecheggia nei poligoni di questa tetra figura e la grandeur di questo vasto e dettagliatissimo mondo ideato da Shinji Aramaki (già veterano di trasposizioni cinematografiche di manga/anime) smuove emotivamente gli spettatori, se l’azione sia da libro di testo di cinematografia (perfetta nella sua frenesia) la trama globale difetta senza scampo di vitale coerenza.

Il concetto di libertà (vago, possente, meraviglioso), più citato che perseguito realmente dai personaggi, risulta lo scheletro debole di una narrazione a tratti confusa e probabilmente troppo personalistica, in alcuni casi prevedibile nonostante i tentati ma in qualche modo monchi colpi di scena . I nutriti riferimenti dello sceneggiatore Harutoshi Fukui alla serie classica ed a quelle successive (non sempre di successo e non sempre ambientate nello stesso universo) non vengono  adeguatamente spiegati ad un pubblico forse novizio e, peggio ancora, i tagli rispetto alla versione estesa mutilano la visione di insieme e, quindi, la comprensione di alcune sfumature della personalità dei pur vibranti protagonisti.

Nonostante le sue pecche, talvolta non secondarie, Capitan Harlock è un film valido, specialmente se non lo si considera come opera a se stante ma come gradino verso opere più complete e meno ermetiche. Un film di animazione più che degno ma indirizzato ai papà ora quarantenni e, di certo, non ai figli.

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