Compirà 50 anni a settembre Keanu Reeves, la star di Matrix dai lineamenti orientali nelle cui vene scorre sangue inglese, hawaiano, portoghese e cinese. E negli ultimi anni è proprio alle sue radici orientali che l’attore si sta riavvicinando. Dopo aver presentato il suo primo film da regista all’ultimo Festival di Cannes, Man of Thai Chi, patinata produzione che punta sull’arte del kung fu, interamente finanziata con capitali cinesi, lo ritoviamo in sala, nelle vesti di protagonista, in 47 Ronin, kolossal wuxia che spalanca le porte al fantasy.
Nella pellicola diretta dall’esordiente inglese Carl Rinsch, ambientata nel Giappone feudale, Reeves interpreta il mezzosangue Kai che fugge da bambino dai demoni che lo hanno allevato e trova rifugio nella provincia di Ako, sotto la protezione di Lord Asano (Min Tanaka) e del samurai al suo servizio, Oishi (Hiroyuki Sanada, Ring, L’ultimo Samurai). Il suo status di mezzosangue gli ha sempre impedito tanto di integrarsi, quanto di poter vivere liberamente il suo amore per Mika (Ko Shibasaki), figlia di Lord Asano.
A far precipitare la situazione, ci si mettono i piani di conquista di Lord Kira (Tadanobu Asano), che con l’aiuto della strega Kitsune (Rinko Kikuchi, vista lo scorso anno in Pacific Rim e già candidata all’Oscar per il suo ruolo in Babel, nel 2006) ordisce un piano per costringere Lord Asano al seppuku e sposare Mika, ottenendo dallo Shōgun Tokugawa il controllo della provincia di Ako. Ma gli ex samurai guidati da Oishi, ora Ronin perché privi di un padrone, promettono vendetta e si uniranno per vendicare Lord Asano e sconfiggere Lord Kira.
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Una storia ispirata a una leggenda del folklore giapponese che affonda le proprie radici in temi quali l’onore, la vendetta e il sacrificio e già magistralmente adattata per il grande schermo da Kenji Mizoguchi nell’epico I 47 Ronin del 1941. Alla luce del suo predecessore, il film di Rinsch rappresenta il tentativo hollywoodiano di raccontare e far conoscere la leggenda da cui trae spunto, a un pubblico non giapponese, cercando di renderla più “appetibile” attraverso l’utilizzo di effetti visivi traboccanti e una confusa mescolanza tra generi.
Impresa ardua e non del tutto riuscita, nonostante lo script di due sceneggiatori navigati come Chris Morgan (autore di alcuni capitoli della serie Fast and Furious e di Wanted – Scegli il tuo destino) e Hossein Amini (Drive, Biancaneve e il cacciatore). Una produzione burrascosa, che ha dovuto barcamenarsi tra riprese aggiuntive, problemi di montaggio e sforamenti di budget (che si aggira attorno alla ragguardevole cifra di 175 milioni di dollari), un mix confuso di fantasy e azione mal amalgamato, un plot strabordante e allo sbaraglio e un Keanu Reeves mai così catatonico: son questi gli elementi che giocano a sfavore della riuscita del film, rendendolo un disorganico polpettone in salsa samurai con elementi mitologici pescati qua e là dal folklore giapponese.
Si salvano i costumi (sontuosi, creati da Penny Rose, nota per aver vestito elfi, nani e hobbit nella trilogia di Peter Jackson e la ciurma di Jack Sparrow nei vari Pirati dei Caraibi) le suggestive ambientazioni e, in parte, gli effetti speciali (3D compreso, di cui si abusa non poco), ma con un budget così elevato, che si salvasse almeno la componente estetica era il minimo che ci si potesse augurare.
La cosa che fa più male, però, è vedere Keanu Reeves così fuori parte. Anche perché in 47 Ronin torna ad interpretare un “eletto”, proprio come accadeva nella trilogia di Matrix: anche nel Giappone feudale, il suo personaggio non tarda a tirar fuori quelle capacità che lo rendono un diverso. Peccato che nei panni dell’outsider Kai, l’attore appaia alienato e straniato come non mai, lasciandosi rubare la scena dai volti ben più espressivi di Hiroyuki Sanada e Rinko Kikuchi.
[Thanks, Movielicious!]
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