Senza apparente soluzione di continuità, il secondo capitolo dell’opera monstre di Lars Von Trier inizia esattamente dove si interrompeva il primo, ossia da quel blocco del piacere che sprofonda Joe (Stacy Martin/Charlotte Gainsbourg) nella disperazione più cupa, reale linea di confine – se non altro in termini di puro mood – tra il primo e il secondo atto. La donna continua a raccontare il suo calvario sessuale a Saligman (Stellan Skarsgård) ma è da subito evidente come qualcosa sia cambiato rispetto alla prima parte della storia. Joe parla infatti di un dolore talmente grande da riuscire a vincere sia sull’amore per Jerome (Shia LeBoeuf) sia sulla maternità, vera snodo affettivo nella vita di ogni donna. Ecco dunque che l’aneddotica si fa via via più oscura e, di rimando, le continue digressioni dell’anziano intellettuale si spostano da un piano squisitamente letterario all’alveo della religione, fino a far convergere inesorabilmente significati e significanti nell’amarissimo epilogo della parabola cristologica di Joe.
Pur continuando a sostenere la relativa prescindibilità della divisione di Nymphomaniac in due atti, non si può fare a meno di notare come in effetti ci si trovi di fronte a due corpi filmici del tutto simmetrici, ma anche profondamente diversi. Se nel primo capitolo infatti Von Trier sembrava quasi corteggiare gli spettatori più scettici, dando loro l’impressione di volerli portare in luoghi diversi da quelli solitamente lambiti col suo cinema, in questo Volume 2 è un po’ come se il regista dicesse “Ok, fino ad ora abbiamo scherzato ma adesso si fa sul serio, ché sono pur sempre Lars Von Trier”.
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La differenza sostanziale è nella progressiva perdita, da parte di Joe, di qualsiasi potere decisionale sulla sua vita. Sin dai primi fotogrammi il suo passaggio da ninfa a vittima sacrificale appare piuttosto chiaro e il legame empatico tra spettatore e protagonista – quasi del tutto assente nel primo capitolo – è finalmente libero di instaurarsi. La spirale di autolesionismo in cui cade la protagonista colpisce lo sguardo con la stessa violenza delle scudisciate che Joe si lascia infliggere e il gioco intellettuale cede ben presto il passo al dolore. Paradossalmente c’è un’idea di fisicità molto più piena e, se vogliamo, erotica nel masochismo della Joe adulta che non nella sua più consapevole, ma acerba educazione sessuale. E’ un po’ come se le umiliazioni subite da tutte le figure femminili viste nei precedenti film di Von Trier (da Emily Watson a Kirsten Dunst passando per Bjork e Nicole Kidman) si ricongiungessero per deflagrare in questa apoteosi di carne e sangue.
La costante che lega le due metà di quest’opera è il ricorso insistito a un’autoreferenzialità mai leziosa, che ha il suo climax nella geniale citazione dell’incipit di Antichrist (in pratica si tratta di una scena che potrebbe tranquillamente appartenere a quel film) e un’eleganza formale lontana anni luce dai dettami di quel Dogma teorizzati dallo stesso autore danese. Sembra evidente a questo punto come il progetto di Nymphomaniac nel suo complesso sia la summa e, al tempo stesso, il punto di non ritorno di tutto il cinema di Lars Von Trier che si troverà, nell’immediato futuro in prossimità di un delicato bivio tra il perseverare in uno stile ormai più che riconoscibile (una scelta à la Fellini o à la David Lynch per intenderci) o rimescolare le carte di un talento indubbio – anche se declinato talvolta in modo discutibile – e avventurarsi in territori a lui meno noti. Ciò che ci lascia per ora è forse il suo film più bello, impreziosito dalla performance “totale” (siamo ben oltre il concetto di semplice recitazione) della sua musa Charlotte Gainsboug, vero trait d’union di tutta la “trilogia della depressione”, e fiaccato giusto da un finale leggermente didascalico nella sua inevitabilità.
[Thanks, Movielicious!]
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