Nessuno è stato in grado di raccontare l’omologazione e l’appiattimento del sistema americano meglio di quanto abbia fatto Jim Jarmush. Semplicemente dimostrando che uno sguardo diverso, poteva esserci. Uno sguardo come il suo, attento a tutto ciò che è inedito e marginale. Sin dal suo esordio con Stranger than Paradise, il regista americano ha dimostrato che non c’era bisogno di budget a sei zeri per sovvertire i canoni estetici e narrativi della cinematografia, né tantomeno per dare uno scossone alla grammatica dei generi e ai suoi parametri rigidamente codificati e altrettanto rigidamente osservati.
Come in una sorta di inconsapevole revisionismo, tutto quello che colpisce gli occhi e il cuore di Jarmush entra in un modo e ne esce completamente e magicamente trasformato, reso più eccentrico, originale, unico. E anche la sua ultima fatica, presentata lo scorso anno al Festival di Cannes, non fa eccezione, evitando gli ogni incasellamento e rigidità e regalandoci una delle più singolari storie di vampiri mai viste al cinema. Doveva arrivare lui per infondere nuova linfa al genere, ultimamente straziato e anche un po’ ridicolizzato da prodotti quali la Twilight Saga, La leggenda del cacciatore di vampiri o il pessimo Dracula 3D; sempre lui per mostrare i “non morti” sotto un aspetto del tutto nuovo e assolutamente credibile.
Il regista americano anche questa volta punta in alto, come e più di sempre, e racconta l’amore tra due algidi succhiasangue, Adam ed Eve (nomen omen), che attraversa i secoli e la storia, fino ad arrivare ai giorni nostri, più solido e stabile che mai.
Interpretati meravigliosamente da Tom Hiddleston e Tilda Swinton, i due amanti, nonostante il forte legame che li unisce, vivono separati: lei a Tangeri, in cerca di sangue tra i vicoli della Medina insieme al suo amico Christopher Marlowe (John Hurt) con cui trascorre le nottate parlando dei bei tempi andati al Café Mille Et Une Nuits, e lui nella periferia di Detroit, rinchiuso in una casa-studio di registrazione da cui esce solo per comprare sangue fresco da un medico corrotto. Si videotelefonano e si ammirano attraverso gli schermi del cellulare, ma tutto questo non è sufficiente per Adam, non questa volta. Colto da un attacco di depressione attribuito a quelli che chiama zombie, gli esseri che popolano il mondo e che, con la loro rozzezza, lo stanno mandando allo sfacelo, chiede a Eve di andarlo a trovare. Volo rigorosamente notturno, ed ecco che anche lei è a Detroit per passare del tempo con il suo fragile, colto, musicista tanto immobile quanto irrequieto. I due si ritrovano, fanno pigre passeggiate e lunghi giri in macchina senza meta, tra le carcasse delle fabbriche abbandonate nella periferia più squallida della città (ex cuore pulsante dell’industria automobilistica americana, che rappresenta la fine del sogno dell’era industriale). Tutto procede con un ritmo lento e cantilenante, fino a che nella loro vita non irrompe Ava (Mia Wasikowska), sorella minore di Eve, che porterà un certo scombussolio in una routine apparentemente inalterabile, fatta di riflessioni, letture e momenti di malinconia.
Protagonisti senza tempo, colti, bohemien, upperclass e amanti di una bellezza che va cercata nel glorioso passato, piuttosto che nel desolato presente, i vampiri di Jarmush rappresentano insieme la chiave di svolta e il ritorno alle origini del genere. Mai in un vampire movie c’è stata tanta attenzione alla tradizione (Adam ed Eve escono solo di notte, i loro corpi non luccicano e soprattutto sono ben consapevoli di essere destinati a convivere con la solitudine in eterno) e mai i “non morti” sono stati dipinti in modo tanto affascinante e realmente al di fuori del tempo come in questo film. Continuando a giocare con i generi come ha sempre fatto (tutti i suoi lavori sono di fatto orfani di un filone ben definito, da Daunbailò a Mistery Train, da Dead Man a Broken Flowers) il regista americano in Solo gli amanti sopravvivono mescola il road movie al kammerspiel, l’horror al dramma sentimentale, sfiorandoli tutti senza svilupparne pienamente nessuno. I rimandi letterari e scientifici che rimbalzano nei dialoghi tra i due protagonisti e il saggio Marlowe – ancora piuttosto seccato di aver vissuto all’ombra del suo eterno rivale di Stratford-upon-Avon – si sprecano, ma vengono dati in pasto al pubblico con un’ironia colta e sottile che non può non conquistare: si citano Shakespeare a Byron e Shelley, passando per Fibonacci, Einstein e Tesla. Tutti personaggi che i nostri hanno realmente conosciuto o comunque incrociato nelle loro infinite esistenze.
Ma quel che ancora stupisce della poetica di Jarmush, è la sua coerenza, la capacità di raccontare una storia come quella di Adam ed Eve in cui succede poco o nulla, almeno fino all’arrivo di Ava, il solo personaggio incaricato di scuotere un plot solo all’apparenza avulso e distante. Una storia che nelle mani di chiunque altro sarebbe certamente scaduta nel ridicolo, ma che il più dandy dei registi in circolazione riesce a portare avanti impreziosendola con una ricercata colonna sonora che meriterebbe un approfondimento a parte (Charlie Feathers, Bill Laswell, i Black Rebel Motorcycle Club, Wanda Jackson, gli Hot Blood, solo per citarne alcuni) e tenendo i suoi due outsiders costantemente sul ciglio del baratro estetico e della solitudine. Percepiamo attraverso i loro sguardi il disagio di chi ha già visto tutto e la rassegnazione di chi ha accettato la non facile idea di vivere in eterno; riconsideriamo il concetto stesso di vita che, vista con i loro occhi, non è altro se non la “sopravvivenza delle cose” e ci poniamo sullo stesso piano della coppia di (s)fortunati osservatori di un mondo in divenire che da secoli corre su un binario a loro parallelo.
Solo gli amanti sopravvivono è, in conclusione, un’opera liturgica e solenne, minimalista e antinarrativa che consolida il talento di Jarmush e conferma la sua appartenenza alla cerchia dei massimi esponenti del cinema indipendente contemporaneo.
[Thanks, Movielicious!]
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