Prima di qualsiasi altra valutazione, è importante, a mio avviso, un particolare di Le meraviglie, interessante opera seconda di Alice Rohrwacher e meritatissimo Gran Prix della Giuria a Cannes 2014. La storia è ambientata cronologicamente intorno alla metà degli anni ’90, datazione che si evince dalla canzone di Ambra che alcuni personaggi cantano come una novità e che uscì nel 1994. Recentemente – dopo aver abbondantemente esplorato gli anni ’70, sempre quelli delle contestazioni, delle lotte armate, della liberazione sessuale – il cinema italiano sta rivolgendo, quasi introspettivamente, il suo sguardo, la sua attenzione, verso gli anni ’80 ed ora anche ’90. Anni sicuramente meno cinematografici e romanzeschi dei Seventhies, ma un periodo di transizione in cui individuare la radice, l’origine, la svolta antropologica che ha portato gradualmente ma velocemente a quello che siamo oggi.
Gli anni ’90 della Rohwacher sono in parte ancora una prosecuzione del decennio precedente ma anticipano anche gli anni Duemila. La forza di gravità dei due decenni, sfilacciano quest’epoca di passaggio come già i primi anni ’80 erano stati un punto di transizione tra il decennio “sociale” e quello “privato”. Il cinema arriva sempre con un leggero ritardo sulle mutazioni storiche ma ha cercato di seguire, nelle sue opere più attente ed “umanistiche”, i cambiamenti da vicino, dando loro il volto di personaggi ed il racconto di storie metaforiche ed universali. La famiglia raccontata da Le meraviglie è ancora “tardo hippie”, comunista nel senso di comune, di luogo di condivisione collettiva in cui edificare una sintesi virtuosa e miniaturizzata d’una società ideale, molto diversa da quella corrotta e distorta dalla storia che è là fuori, ad assediare ed insidiare la comunità.
Il mondo esterno può avvelenare, inoculare il virus del denaro o dell’immagine in una fortino-comunità che oramai per resistere si è semplificato, inscheletrito, sul nucleo più interno e primario, ovvero la famiglia. La famiglia rohwacheriana vetero hippie del ’94 è ancora “ideologica”, legata, come emerge anche da alcuni dialoghi, agli schemi politici degli anni ’70 ed oramai condannata a disgregarsi, a cedere alle pressioni esterne, per poi potersi riavvicinare in forme nuove, ancora instabili, che la proiettano verso gli anni Duemila.
Una famiglia (la cui mamma è interpretata da Alba Rohrwacher) ed un casale lontanissimi dal gineceo radical-chic e dal casale-agriturismo raccontati nel 1986 da Mario Monicelli in Speriamo che sia femmina. Film che cercava di fendere un’incrinatura nell’allora compatto kitsch degli anni ’80 e che anticipava gli anni ’90, anni ancora abbastanza ricchi ma non più arricchiti, in cui il benessere conquistato si andava raffinando in scelte, in forme di socializzazione meno colorate e consumistiche. La fata pacchiana e felliniana di una tv locale naiveè, interpretata da Monica Bellucci, è l’ultimo personaggio, di un mondo del decennio precedente che negli anni seguenti, con passo felpato, abbandonerà la scena come già un fantasma degli anni ’70, oramai fuori dalla storia, era il capofamiglia rohrwacheriano. Di lì a poco, l’esplosione della telefonia mobile, poco dopo di Internet, fino a scavallare il Duemila e trovarsi improvvisamente in un altro paesaggio antropologico, sospeso tra benessere e crisi.
Le meraviglie adotta uno stile ibrido, volutamente non estetizzante, in cui la “meraviglia” è nelle piccole cose, nelle piccole vite, a partire da quelle delle api, nei minimi spostamenti dei sentimenti e degli affetti. Un sentimento di meraviglia verso l’esistenza e la realtà – particolarmente espresso nell’età della protagonista Gelsomina – che avvicina il film allo spirito di Respiro di Emanuele Crialese ma anche al cinema “spoglio e meravigliato” di Salvatore Mereu, penso a Ballo a tre passi o a Bellas mariposas. Ovviamente la fata kitsch interpretata da Monica Bellucci ed un cammello comprato dal capofamiglia farebbero pensare ad un certo manierismo felliniano mentre l’ambientazione, a certe periferie del pasoliniano Uccellacci ed uccellini se non, addirittura, ai desolati panorami di Ciprì e Maresco. Ma sono sbagliati tutti questi parallelismi con altri autori. Lo stile di Alice Rohrwacher deve ancora evolvere e definirsi ma è già abbastanza originale ed interessante. Ed ottima anche la mano con cui dirige gli attori, innanzi tutto Gelsomina, un’intensa Maria Aleandra Lungu.
Le meraviglie è un bel film, anch’esso però, come gli anni che racconta, probabilmente è un ponte cinematografico che porterà l’autrice, se seguirà queste giuste premesse, ad elaborare ulteriormente una propria estetica, ancora più potente e definita.
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