“That girl thinks she’s the queen of the neighborhood
I got news for you, she is!
They say she’s a dyke but I know
She is my best friend, yeah!”
Rebel Girl, Bikini Kill
Disamorarsi del fare cinema e delle sue dinamiche alienanti è il trauma più determinante dell’esperienza professionale di un regista: c’è chi, come David Lynch dopo il testamentario INLAND EMPIRE, si chiama fuori, investendo le proprie energie nei campi più disparati, lontano dal set, chi prosegue indefesso e fa di questa crisi il nuovo, asfittico e interlocutorio fulcro della propria poetica – Paul Schrader e David Cronenberg, tanto per citare due casi contemporanei e affini – e c’è chi si concede qualche anno di pausa, nella speranza di rinfrescarsi le idee e di capire da dove le cose hanno cominciato ad andare male.
E’ a quest’ultima categoria che fortunatamente appartiene il quarantacinquenne Lukas Moodysson, artista di punta dell’industria cinematografica scandinava del dopo-Bergman, rivelatosi al pubblico di tutto il mondo con il dolcissimo romanzo di formazione Fucking Åmål, pietra angolare dell’universo LGBT di fine millennio: il successo fu tale da spianare la via ad una serie di esperimenti sempre più audaci e sfuocati, dall’esagitato affresco generazionale del pur simpatico Together all’ardita virata melodrammatica di Lilya 4-ever, fino alla totale perdita di controllo di Mammoth, pastrocchio interculturale dalle smodate ambizioni salutato tiepidamente come un pigro succedaneo del linguaggio hyperlink di Iñárritu.
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Dopo quattro anni di ritiro, segnati dalla improvvisa scomparsa del padre e da un salvifico rifugio nella scrittura, Moodysson abbandona le derive pretenziose e vagamente masturbatorie delle sue prove più recenti, sedando i pruriti avantgarde di A hole in my heart e di Container e ritornando alle atmosfere più distese e convenzionali degli esordi: per quanto facile e riparatoria, la scelta di Moodysson ha sortito forse insperatamente gli effetti più felici, tanto che We Are the Best!, in seguito alla trionfale accoglienza nella sezione Orizzonti di Venezia70, può dirsi quella ideale prosecuzione di Fucking Åmål troppo a lungo procrastinata.
Base prospettico delle vicende è di nuovo l’adolescenza al femminile – “il punto di vista più distaccato ed efficace per parlare di me senza autocondizionamenti”, secondo le parole dell’autore – l’anno è il 1982 e i trentenni da centro sociale protagonisti di Together sono cresciuti solo anagraficamente, impegnandosi ben poco nelle loro mansioni genitoriali: la timida, contrastata scoperta dell’amore da parte delle compagne di scuola Elin e Agnes lascia spazio agli sconsiderati e innocenti atti di ribellione delle riot grrrl ante litteram Bobo (Mira Barkhammar) e Klara (Mira Grosin), alla loro routine in un’irriconoscibile Stoccolma suburbana a cavallo fra il declino del punk e l’ascesa dell’eurodisco, ai loro primi passi verso l’autodeterminazione e la rivelazione di sé.
Come di consueto, a Moodysson l’intreccio, mutuato con sufficiente libertà da una graphic novel autobiografica della moglie Coco, interessa quanto basta: principio imprescindibile – e vincente – del film è il tono appassionato ma mai ricattatorio, vitale ma mai ruffiano, di questo semplice inno alla giovinezza, un racconto scandito dai bicordi elementari di quel genere che meglio rappresenta la dialettica immatura e delicatissima della pubertà. Non c’è nulla di straordinario, di tragico o di sensazionale nelle peregrinazioni delle due protagoniste e della loro controparte angelica Hedvig (Liv Lemoyne), un nucleo che, per certi versi, esprime dicotomicamente la personalità di Moodysson, scisso fra i suoi ideali ultra-liberal e la sua profonda fede cristiana: catturando ancora una volta con fedeltà e filologia la cappa di noia della periferia nordica, Moodysson, pur indulgendo forse in leggerezza, ritrova quella vena autentica e umana che sembrava perduta per sempre, quel talento descrittivo, accompagnato dalla mai invasiva fotografia da Polaroid vintage del fido Ulf Brantås, capace di rendere i propri personaggi qualcosa di familiare e di indimenticabile.
Non ci si aspetti, pertanto, un lavoro da filologi sulla realtà musicale dell’epoca: gli Echo & The Bunnymen e gli Human League fanno unicamente da mero sottofondo, si citano solo casualmente il suicidio di Ian Curtis e quella metamorfosi violenta dei Joy Division in New Order che fu anche la morte di un’epoca, le schermaglie fra piccole band locali sono più che altro un pretesto per interagire e per conoscersi, e il rock, in fin dei conti, è solo un’idea come un’altra, la colonna sonora della prima cotta – un episodio di per sé immancabile in un coming-of-age, ma ripreso qui con un pudore da documentarista -, delle prime idiosincrasie (impagabile le tappe di composizione dell’anthem Hatar sport!, unico brano del loro repertorio) e delle prime scorribande, fino all’anticlimatico, esilarante finale sotto forma di fallimento ribaltato in trionfo.
We Are the Best! è quindi, per la carriera di Moodysson e per l’umore dello spettatore, un’opera tanto piccola quanto corroborante, un atto di rinascita che comunica alla perfezione la joie de vivre e il senso di fratellanza degli anni più spensierati, un vademecum sfacciatamente ottimista e contagioso rivolto affettuosamente a chi tredicenne lo è già stato, lo è e lo sarà.
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