Accolto da un nutrito stuolo di corrispondenti locali ed esteri nella sala conferenze dell’agenzia di stampa ITAR-TASS e alla presenza del direttore artistico Kirill Razlogov, il programma del 36° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca (in programma dal 19 al 28 giugno) viene descritto come il più potente e onnicomprensivo dall’inizio del secolo: l’apertura è affidata, decisamente a sorpresa e con una certa dose di ironia, al documentario USA Red Army, dedicato alla stella dell’hockey sovietico Slava Fetisov e firmato nientemeno che da quel Gabe Polsky che, in coppia con il fratello Alan, assestò un notevole colpo di coda al 7° Festival Internazionale del Film di Roma con il beniamino del pubblico The Motel Life; la chiusura, un autentico colpaccio per la rassegna patrocinata da Nikita Mikhalkov e l’ambizioso tentativo di bissare il successo della presentazione in pompa magna del (pessimo) blockbuster World War Z, è l’anteprima mondiale di Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie, secondo, annunciatissimo capitolo del reboot della saga inaugurata nel 1968 da Franklin J. Schaffner.

Alla giuria capitanata dal veterano Gleb Panfilov, punto di riferimento dell’industria filmica URSS che con l’indimenticabile Tema sbancò il Festival di Berlino, e composta, fra gli altri, da Abderrahmmane Sissako, fra gli autori più celebrati di Cannes 2014 grazie al suo Timbuktu, e dalla tedesca Franziska Petri, protagonista di quell’Izmena presentato in competizione a Venezia69, spetterà il compito di valutare una nutritissima selezione di concorrenti provenienti, a dispetto della scarsa pooolarità di cui oggi gode la Russia, dai quattro angoli del globo, dalla curiosa fantascienza etiope in salsa coloniale di Beti and Amare al claustrofobico kammerspiel israeliano Ir mikalat (Rifugio), dal noir nipponico Watashi no Otoko (Il mio uomo) al crime-movie greco Oi aisthimaties (I sentimentalisti), senza dimenticare la Germania di Doris Dörrie (in concorso al Lido nel 2002) e del suo corale Alles Inklusive e la Corea del Sud di Joryu Ingan (La razza aviaria), pellicola data per favorita.

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La Turchia, campionessa uscente con l’ottimo Zerre (Particella), confida nel bis con lo sperimentale, autobiografico diario di convalescenza Eye Am, mentre i padroni di casa schierano Vladimir Tumayev il titolare di cattedra del corso di regia del VGIK – il più importante ente di istruzione cinematografica russo – con la sua fiaba folkloristica Belyj Yagel’ (Lichene bianco) e puntano nuovamente sull’effetto polemica, come fu per l’edizione scorsa con il bellissimo Iuda, con Da i da (Sì e ancora sì), storia d’amore bohemien diretta dalla scandalosa monella del nuovo cinema moscovita Valeriya Gay Germanika, che già si aggiudicò giovanissima una menzione per la Caméra d’Or a Cannes 2008 con la sua opera prima Vse umrut, a ya ostanus’ (Tutti muoiono, io resto); c’è spazio, nonostante l’alta tensione diplomatica, anche per un partecipante ucraino, la parabola parabiblica Braty: Ostannya spovid (Fratelli: Confessione finale), debutto nel lungometraggio per la cortista Victoria Trofimenko.

Se, purtroppo, non ci sarà posto nella sezione principale per un’opera del Belpaese, i nostri cugini d’Oltralpe saranno rappresentati dalla commedia La ritournelle (Il ritornello), che – si spera – regalerà alla manifestazione un red carpet sopra la media grazie alla diva Isabelle Huppert, mentre la Svizzera, dopo la calorosa accoglienza riservata al dolcissimo Rosie, tornerà con l’ensemble-movie Traumland (La terra dei sogni), che annovera nel cast (e, incrociando le dita, nella delegazione) l’almodovariana Marisa Paredes.

Sarà lecito aspettarsi molto dalla tragedia suburbana polacca Hardkor Disko, dal dramma neorealista iraniano Aran haye naras (Melograni acerbi) e dal thriller olandese Reporter, ma a catalizzare l’attenzione di tutti sarà il componente americano della compagine, A Most Wanted Man di Anton Corbijn, il ritorno sulle scene del principe del videoclip rivelatosi regista di vaglia con il suo esordio Control e, escluso il postumo Hunger Games: Il canto della rivolta, l’ultima, attesissima interpretazione di Philip Seymour Hoffman.

E se, dritti dritti da Cannes, sono già dati per certi fra gli ospiti Adieu au langage di Jean-Luc Godard, Deux jours, une nuit dei Dardenne e, prevedibilmente, Timbuktu del giurato Abderrahmmane Sissako – ma non la Palma d’Oro Winter Sleep, almeno per ora – il quadro che ne esce è quello di un evento ancora una volta assolutamente competitivo e affacciato su tutte le multisfaccettate realtà del cinema contemporaneo.

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